Il divieto di reformatio in peius opera solo in relazione alla disposizioni di natura penale ma non riguarda le statuizioni civili della sentenza.
(Cass. Sezione V Penale, 18 ottobre 2012 – 20 febbraio 2013, n. 8339)
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ZECCA Gaetanino – Presidente –
Dott. MARASCA Gennaro – Consigliere –
Dott. VESSICHELLI Maria – rel. Consigliere –
Dott. GUARDIANO Alfredo – Consigliere –
Dott. PISTORELLI Luca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
1) OMISSIS;
avverso la sentenza n. 4670/2009 CORTE APPELLO di FIRENZE, del 25/02/2011;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 18/10/2012 la relazione fatta dal Consigliere Dott. MARIA VESSICHELLI;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Riello che ha concluso per annullamento senza rinvio per prescrizione.
Propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’appello di Firenze in data 25 febbraio 2011 con la quale è stata parzialmente riformata quella di primo grado e per l’effetto è stata dichiarata, dalla Corte medesima, l’estinzione del reato di molestie – così riqualificato già dal primo giudice il fatto originariamente contestato a titolo di violenza privata in danno di OMISSIS, sua coniuge, commesso di nel 2004 e descritto al capo A)-; è stata pronunciata assoluzione dal reato di violazione di domicilio contestato al capo C) come commesso il OMISSIS, ed è stata infine rideterminata la pena per le residue imputazioni relative al reato di lesioni personali volontarie aggravate in danno della medesima persona offesa, commesso il 6 maggio 2004 (vedi motivazione della sentenza impugnata), e a quello di violazione di domicilio, commesso pure il 6 maggio 2004.
Deduce:
1) la violazione di legge ed il vizio di motivazione con riferimento all’addebito di lesioni personali aggravate.
La Corte d’appello aveva affermato, in sentenza, che tale reato, pure contestato al capo B) come commesso l’8 maggio 2004, doveva intendersi commesso il 6 maggio e cioè in occasione della vicenda contestata come violazione di domicilio: e ciò sulla base di quanto annotato nel certificato medico prodotto dalla persona offesa, ma senza tenere conto del fatto- pure segnalato nei motivi d’appello- che la stessa, in dibattimento, aveva affermato di essersi recata in pronto soccorso lo stesso giorno del fatto;
2) la violazione di legge (art. 522 c.p.p.) e il vizio di motivazione per avere i giudici ritenuto provato un fatto (lesioni volontarie del 6 maggio 2004, poste in essere al fine di perpetrare il reato di molestie sub A)) diverso da quello contestato (stesse lesioni, ma cagionate l’8 maggio 2004 e dunque per la realizzazione delle condotte di cui al capo C): una immutazione del capo di imputazione effettuata senza procedere alla formale modifica di questo.
Tale modo di procedere avrebbe comportato, ad avviso della difesa, la nullità della sentenza, limitatamente alla condanna per il reato sub B);
3) il vizio di motivazione e la erronea applicazione della norma penale con riferimento all’addebito di violazione di domicilio (capo C).
La condanna per tale reato è stata pronunciata sulla base delle dichiarazioni della teste OMISSIS, però contrastanti con quelle della persona offesa: quest’ultima aveva infatti affermato di essere stata inseguita per le scale e poi sospinta forza nell’appartamento mentre la prima aveva descritto la persona offesa come colei che aveva aperto la porta all’imputato.
E se tale ultima versione era quella esatta ne emergeva che l’imputato non era entrato in casa invito domino ma aveva subito, egli, la violenza della moglie e della OMISSIS che lo avevano allontanato, limitandosi a una timida reazione per legittima difesa:
e siffatta ricostruzione troverebbe conferma nelle ulteriori dichiarazioni della persona offesa a proposito del fatto che le lesioni refertate erano state subite P8 maggio e non il giorno della presunta violazione di domicilio;
4) il vizio della motivazione in ordine al mancato riconoscimento, anche sul piano meramente putativo, della esimente del consenso dell’avente diritto.
La persona offesa, invero aveva aperto la porta all’imputato, come riferito dal teste OMISSIS: un comportamento che doveva valere a far ipotizzare, in capo all’imputato, la convinzione di poter entrare in casa col consenso dell’avente diritto, tanto più che egli non ha neppure avuto il tempo di commettere il reato nel senso di permanere, contro la volontà del titolare del diritto, nella casa ove era entrato legittimamente. Egli infatti era stato ricacciato fuori immediatamente, non appena le due donne si erano rese conto che era infuriato e ubriaco come dichiarato dalla teste OMISSIS;
5) il vizio della motivazione e la violazione della legge procedurale per avere, il giudice dell’appello, confermato le statuizione civili della sentenza di primo grado (condanna al risarcimento del danno nella misura di Euro 10.000), pur dopo avere accertato la prescrizione del reato di cui al capo A) in data antecedente a quella della sentenza di primo grado e dopo avere assolto l’imputato da uno dei fatti- reato di cui al capo C): così incorrendo nella violazione del principio del divieto di reformatio in pejus, senza, infatti, che sul tema delle statuizione civili fosse intervenuta impugnazione della parte interessata.
Il ricorso è fondato nei termini che si indicheranno.
Invero, deve riconoscersi che sono manifestamente infondati I primi due motivi di ricorso, alla luce di quanto puntualmente e esaustivamente già evidenziato dalla Corte d’appello nella sentenza impugnata.
I giudici hanno infatti affermato che il reato di lesioni volontarie di cui al capo B), pure formalmente contestato come commesso l’8 maggio 2004, avrebbe dovuto – avendo trovato conforto probatorio nelle attestazioni del certificato medico prodotto dalla stessa persona offesa – ritenersi commesso il precedente 6 maggio, posto che tale era anche il tenore del menzionato certificato medico dell’8 maggio, nel quale si era attestato, appunto, che le lesioni riscontrate erano risalenti a due giorni prima.
Si tratta di una motivazione del tutto plausibile in punto di collocazione temporale del fatto-reato e di valutazione della relativa prova, peraltro neppure in violazione del diritto di difesa posto che l’intera vicenda occorsa il 6 maggio 2004, e cioè quella della violazione di domicilio, è stata oggetto di specifica analisi e replica da parte dell’imputato che non ha visto ledere sostanzialmente propri diritti in ragione della precisazione cronologica contenuta in sentenza.
Ha già osservato questa Corte che l’imputato non può essere giudicato e condannato per fatti relativamente ai quali non sia stato in condizioni di difendersi, fermo restando che la contestazione del fatto non deve essere ricercata soltanto nel capo di imputazione ma deve essere vista con riferimento ad ogni altra integrazione dell’addebito che venga fatta nel corso del giudizio e sulla quale l’imputato sia stato posto in grado di opporre le proprie deduzioni (Rv. 229021). E, nel caso di specie, tale eventualità risulta essersi pienamente verificata tanto più che, come attestato nel ricorso a pagina 5, nell’atto di querela erano state denunciate lesioni poste in essere proprio il 6 maggio mentre, riguardo alle dichiarazioni della stessa persona offesa evidenziate dalla difesa, non risulta che dalle stesse potesse evincersi una attestazione obiettivamente capace di inficiare il tenore del certificato medico, così come valutato sia dal giudice di primo grado che da quello di appello.
Il terzo ed il quarto motivo sono volti a evidenziare una presunta lacuna della motivazione in ordine alla esimente-dalla difesa ritenuta ingiustamente non riconosciuta-dell’avere agito, l’imputato, col consenso della persona offesa, quando aveva fatto ingresso della abitazione di costei.
Il nucleo della censura sta nel fatto che dalla versione della teste OMISSIS, ritenuta dalla difesa la più attendibile, la Corte d’appello avrebbe dovuto desumere che la persona offesa aveva tenuto un comportamento (aprire la porta di casa all’imputato) capace di indurre nel ricorrente medesimo la ragionevole convinzione di potere legittimamente entrare nell’appartamento.
Ed invece risulta acclarato, proprio nella sentenza impugnata, che l’apertura della porta da parte della persona offesa non ha certamente costituito l’espressione del consenso all’accesso in casa, nei confronti dell’imputato, anche alla luce dei rapporti fra gli stessi, tali da avere comportato un’immediata reazione, mirata ad allontanarlo dall’appartamento.
La diversa interpretazione della deposizione della teste OMISSIS costituisce una inammissibile prospettazione di diversa ricostruzione dei fatti, come tale non ricevibile in sede di legittimità a fronte di una motivazione plausibile e completa da parte del giudice del merito.
L’ultimo motivo di ricorso deve ritenersi invece ritenersi non inammissibile ma infondato dovendosi notare che il giudice dell’appello, pur confermando la sentenza di primo grado in relazione al reato sub B) e ad una delle due ipotesi contestate sub C), ha tuttavia ritenuto, con espressa motivazione, che, in relazione ai fatti reato accertati a carico dell’imputato, la quantificazione del danno morale, operata in Euro 10.000, doveva ritenersi comunque congrua. La richiesta della difesa di cassare tale statuizione perchè in violazione del divieto di reformatio in pejus non può trovare accoglimento in ragione della osservazione, condivisa dalla giurisprudenza maggioritaria cui si aderisce, secondo cui il divieto di cui all’art. 597 cod. proc. pen. concerne esclusivamente le disposizioni a natura penale, ma non si estende alle statuizioni civili della sentenza (Rv. 244558; Rv. 249961; N. 10212 del 1992 Rv.192294; N. 7967 del 1998 Rv. 211540; N. 30822 del 2003 Rv. 225807).
Invero, il principio del divieto di reformatio in pejus, nel caso di appello della sentenza da parte del solo imputato, trova la propria fonte normativa, con riferimento al processo penale, nel precetto dell’art. 597 c.p.p., comma 3, che lo modula con riferimento alla pena, a eventuali misure di sicurezza o alla causa di proscioglimento, ossia alle statuizioni che concernono l’esito della azione penale e senza che il limite devolutivo della domanda, di cui all’art. 112 c.p.p., possa considerarsi regola automaticamente applicabile nel processo penale: ciò che si desume anche dagli approdi giurisprudenziali che hanno ammesso il dovere del giudice di pronunciarsi sugli effetti civili quando riformi la sentenza assolutoria di primo grado su appello del PM e non anche della stessa parte civile.
Proprio la esistenza di una giurisprudenza che comunque, sul tema, non è univoca, comporta il rilievo che il corrispondente motivo di ricorso è infondato, come detto, ma non manifestamente infondato ed ha comportato la instaurazione di un valido rapporto processuale cui ha fatto seguito la ulteriore decorrenza del termine prescrizionale.
Tale termine, pur considerate le causa di sospensione, è interamente decorso nel novembre 2011 e la circostanza deve essere apprezzata come intervenuta causa di estinzione del reato.
La sentenza impugnata va corrispondentemente annullata senza rinvio agli effetti penali mentre deve essere rigettato il ricorso agli effetti civili.
annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essere i reati estinti per prescrizione. Rigetta il ricorso agli effetti civili.