La Suprema Corte fa chiarezza in merito all’obbligo di comunicazione reddituale alla Cassa Forense e afferma il principio per cui tale obbligo riguarda esclusivamente i redditi derivanti dallo svolgimento di attività professionale forense, ovvero di altra attività per l’esercizio della quale sono, comunque, necessarie le medesime competenze acquisite ed utilizzate per l’esercizio della professione forense.
(Cass. Sez. Lavoro, sentenza 19 dicembre 2013 – 1 aprile 2014, n. 7559)

[OMISSIS]
Svolgimento del processo
Con sentenza del 22/1 — 23/2/2009 la Corte d’appello di Napoli ha rigettato l’impugnazione proposta dalla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Avellino aveva accolto l’opposizione intentata dall’avv. IA alla cartella esattoriale recante l’intimazione di pagamento di € 4085,66 a titolo di contributo integrativo per gli anni 1987, 1988 e 1989 in relazione a volumi d’affari mai comunicati dal professionista.
Nel confermare l’impugnata sentenza la Corte d’appello ha spiegato che l’avvenuta cancellazione del suddetto professionista dalla Cassa dì Previdenza non faceva venir meno l’obbligo di iscrizione all’Albo degli avvocati, ma lo esimeva dall’obbligo di trasmettere i dati reddituali relativi agli anni 1987-88-89. Inoltre, era inammissibile, in quanto nuova, la deduzione, formulata dalla difesa della suddetta Cassa di Previdenza, dell’avvenuta produzione, da parte del professionista opponente, di atti recanti il codice proprio dell’attività degli studi legali ed in ogni caso era emerso che le somme in questione erano state ricevute da quest’ultimo per lo svolgimento di attività diverse da quella forense.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso la Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense con due motivi.
Resiste con controricorso l’avv. Al
Entrambe le parti depositano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
Preliminarmente va esaminata l’eccezione con la quale il controricorrente deduce l’inammissibilità del ricorso per inesistenza della procura speciale conferita dalla Cassa di previdenza ed assistenza forense al suo difensore avv. [OMISSIS] del Foro di Ascoli Piceno. Tale eccezione si basa sul rilievo che tale procura risulta essere stata conferita per la riforma della sentenza della Corte d’appello di Venezia, sezione lavoro, n. 503/2008 del 4/11/2008, laddove la sentenza oggetto del presente giudizio è quella della Corte d’appello di Napoli recante il n. 355/2009, per cui la suddetta indicazione contenuta nel predetto mandato difensivo porterebbe ad escludere che il conferimento della procura sia avvenuto per l’impugnazione della sentenza partenopea.
L’eccezione è infondata, atteso che non appaiono esservi dubbi sulla portata del mandato, che è stato scritto proprio a margine del ricorso avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli n. 355/09 oggetto della presente impugnazione, ricorso che per il resto contiene tutti gli elementi di ammissibilità prescritti dalla legge né, tantomeno sulla integrità del diritto di difesa del controricorrente che non è stato minimamente compromesso dal suddetto errore di indicazione contenuto nel solo mandato difensivo.
E’ utile ricordare che in un caso analogo questa Corte (Cass. Sez. 2, n. 18781 del 14/9/2011) ha avuto modo di statuire che “l’erronea indicazione della decisione impugnata, nella procura speciale rilasciata in calce o a margine del ricorso per cassazione, non incide sull’ammissibilità, del ricorso medesimo che contenga tutti gli elementi prescritti, perché la stretta e materiale inerenza del mandato all’atto d’impugnazione osta a che l’erroneità di detta indicazione, così come l’omissione della indicazione stessa, determini alcuna incertezza sulla identificazione di quella decisione, alla stregua del contesto del ricorso.” (in senso conf. v. anche Cass. Sez. 1, n. 3200 del 15/5/1980)
Col PRIMO MOTIVO la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 10, 11 e 12 della legge 20.9.1980, n.576, sostenendo che è errata la decisione dei giudici d’appello di ritenere il professionista non tenuto all’adempimento dell’invio alla Cassa previdenziale delle dichiarazioni reddituali obbligatorie per il solo fatto della sua iscrizione all’Albo professionale e non alla Cassa Forense, in quanto una tale affermazione sarebbe in contrasto con la formulazione letterale dell’art. 17, comma 1, della legge n. 576/80 e con la “ratio” della istituzione dell’adempimento della comunicazione reddituale di cui al cosiddetto “Mod. 5″.
Ritiene, invero, la ricorrente che dalla lettura della suddetta norma si ricava che, a differenza dei praticanti con patrocinio, non soggetti all’obbligo contributivo qualora i medesimi non siano iscritti alla cassa forense, per gli avvocati iscritti all’albo professionale l’obbligo di invio della dichiarazione reddituale (c.d. Mod. 5) alla cassa forense è conseguente alla semplice iscrizione al predetto albo, in quanto nel caso di superamento del livello reddituale fissato dalla Cassa di previdenza sorge l’obbligo di iscrizione alla stessa e quello del relativo versamento contributivo. Ciò in quanto l’avvocato, a differenza del praticante con patrocinio, è soggetto destinatario delle prestazioni previdenziali erogate dalla cassa e, quindi, soggetto all’obbligazione contributiva.
Col SECONDO MOTIVO la ricorrente si duole dell’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine al fatto controverso e decisivo rappresentato dalla documentazione prodotta in primo grado dall’avv. I. concernente diverse certificazioni relative ad emolumenti da questi percepiti per attività professionali di vario genere riconducibili, in base ad una più attenta analisi non eseguita dalla Corte di merito, a quella di legale esercitata dalla controparte. Altro documento ignorato dalla Corte territoriale sarebbe, secondo l’odierna ricorrente, quello della nota difensiva autorizzata del 13.2.2006 con la quale erano stati, a suo dire, forniti elementi utili per la riconducibilità dei compensi percepiti dall’avv. I alla sua tipica attività professionale. Tale omessa disamina renderebbe palese, a giudizio della ricorrente, l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte d’appello nel ritenere inammissibile, in quanto considerata nuova, la deduzione attraverso la quale si era segnalato che nella documentazione prodotta dall’avv. I erano stati indicati i compensi percepiti col codice proprio dell’attività degli studi legali.
Il ricorso è infondato.
Quanto al PRIMO MOTIVO, incentrato sulla ritenuta sussistenza dell’obbligo di comunicazione dei dati reddituali in base alla sola iscrizione del professionista nell’albo degli avvocati, si osserva che, pur trovando un tale rilievo appiglio nelle norme citate e nella giurisprudenza di questa Corte, lo stesso non è risolutivo nella fattispecie, in quanto resta insuperata la parte della decisione impugnata attraverso la quale è stata rilevata l’infondatezza della pretesa contributiva della Cassa di previdenza per la mancanza di prova della natura prettamente forense dell’attività professionale produttiva dei compensi accertati in favore dell’opponente avv. I
Di certo, come le sezioni unite di questa Corte hanno statuito (Sez. U, n. 20219 del 19/11/2012), “costituisce illecito disciplinare, a norma dell’art. 17 della legge 20 settembre 1980, n. 576, la condotta dell’avvocato iscritto all’albo che ometta di inviare alla Cassa nazionale forense le comunicazioni relative all’ammontare dei redditi professionali dichiarati ai fini IRPEF e dei volumi di affari dichiarati ai fini IVA, anche se il professionista non sia iscritto alla Cassa, né abbia l’obbligo di domandare l’iscrizione ad essa a fini previdenziali – avvenendo d’ufficio l’iscrizione a fini assistenziali per tutti gli iscritti agli albi – e di versare conseguentemente il contributo soggettivo, poiché il sistema normativo riferisce il dovere di comunicazione del reddito e del volume di affari indistintamente a tutti gli avvocati, a differenza dei praticanti, per i quali l’obbligo è espressamente previsto solo se gli stessi siano iscritti alla Cassa.”
Tuttavia, in caso analogo al presente, si è osservato (Cass. Sez. lav. n 5975 dell’i 1/3/2013) che “l’obbligo per gli iscritti alla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza per avvocati e procuratori di versare una maggiorazione percentuale su tutti i corrispettivi rientranti nel volume d’affari ai fini dell’I.V.A. si riferisce soltanto ai redditi derivanti dallo svolgimento dell’attività professionale. Pertanto, restano esclusi i redditi percepiti da un avvocato in conseguenza dell’attività svolta quale consigliere di amministrazione di una società di capitali, in difetto di prova circa il fatto che gli stessi possano ricondursi in qualche modo all’esercizio di attività professionale. (Nel caso di specie, non essendo stata fornita prova che la partecipazione del legale all’attività del consiglio di amministrazione avesse richiesto le stesse competenze tecniche di cui il medesimo si avvaleva ordinariamente nell’esercizio dell’attività professionale, il giudice di merito aveva escluso che tale attività assumesse connotati tali da poter essere oggettivamente ricondotta a quella tipica della professione; la S.C., nel confermare la decisione impugnata, ha affermato il principio su esteso)”
Anche in passato si era avuto modo di affermare (Cass. Sez. lav. n. 629 del 19/1/1993) che “l’art. 11 della legge 20 settembre 1980 n. 576 (modificato dall’ad. 2 della legge 2 maggio 1983 n. 175), il quale prevede, nel suo primo comma, l’obbligo per gli avvocati e procuratori (nonché per i praticanti procuratori) di versare alla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza per avvocati e procuratori una maggiorazione percentuale o contributo integrativo “su tutti i corrispettivi rientranti nel volume annuale d’affari ai fini dell’I.V.A.”, va interpretato ¬alla stregua del sistema della legge e della “ratio” della medesima – nel senso che oggetto di tale imposizione contributiva (come del contributo soggettivo previsto dall’art. 10 della stessa legge) sono soltanto i redditi prodotti dallo svolgimento dell’attività professionale, con esclusione di qualsiasi altro provento di carattere avventizio non collegabile all’esercizio della professione “stricto sensu” (come, nella specie, il reddito derivante dall’attività di consigliere di amministrazione di società).”
Quanto al SECONDO MOTIVO, col quale si segnalano vizi della motivazione, si osserva che il tentativo della ricorrente di richiamare l’attenzione di questa Corte su documenti prodotti dalla controparte che la Corte di merito non avrebbe considerato, documenti che, a suo giudizio, avrebbero dimostrato la natura tipicamente legale dell’attività svolta dall’opponente, non supera il rilievo di novità della deduzione contenuto nell’impugnata sentenza e finisce, nel contempo, per tradursi in una inammissibile istanza di rivisitazione del merito probatorio adeguatamente valutato dalla Corte d’appello la quale, con motivazione congrua ed esente da vizi di tipo logico-giuridico, ha esaminato in punto di fatto il contenuto del modello fiscale “740″ versato in atti, pervenendo al convincimento che dallo stesso non emergeva alcun codice di attività proprio degli studi legali e che nell’allegato “E” erano stati dichiarati compensi per lavoro autonomo non riconducibile all’esercizio dell’attività forense, ma ad attività diverse, quali quelle di vice-presidente di società e di collaborazione coordinata e continuativa con enti locali e società.
Quanto alla censura mossa alla rilevata novità della deduzione, con la quale nel giudizio d’appello la difesa della Cassa forense aveva segnalato i compensi indicati dall’opponente col relativo codice di attività degli studi legali, si osserva che è insufficiente il richiamo operato dalla ricorrente al contenuto della propria nota difensiva del 1372/2006, in quanto la stessa non dimostra la tempestività delle eccezioni in essa sviluppate, per cui tutto ciò si traduce in un profilo di inammissibilità della presente censura per mancanza di autosufficienza della stessa.
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio
nella misura di € 2500,00 per compensi professionali e di 100,00 per esborsi,
oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma il 19 dicembre 2013

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