Il significato delle parole dipende dall’uso che se ne fa e dal contesto comunicativo in cui si inseriscono: se è vero infatti che in linea di principio l’uso abituale di espressioni volgari non può togliere alle stesse l’obiettiva capacità di ledere l’altrui prestigio, ve ne sono alcune di uso talmente diffuso, anche quali intercalari, che in relazione proprio al contesto comunicativo perdono la loro potenzialità lesiva.

È innegabile che l’evoluzione del costume ed la progressiva decadenza del lessico adoperato dai consociati nei rapporti interpersonali, unitamente ad una sempre maggiore valorizzazione delle espressioni scurrili come forme di realismo nelle arti contemporanee (si pensi soprattutto al cinema) e tradizionali (quali ad esempio la letteratura o il teatro) ha reso alcune parolacce di uso sempre più frequente, soprattutto negli strati sociali a più bassa scolarizzazione, attenuandone fortemente la portata offensiva, con riferimento alla sensibilità dell’uomo medio.
Più precisamente occorre stabilire se rileva solo ciò che si è voluto dire ovvero anche ciò che si è voluto fare con le parole controverse: nel primo caso si tratta così di accertare se un determinato enunciato sia effettivamente offensivo della reputazione altrui, per cui viene in rilievo una questione di qualificazione giuridica, che può essere risolta direttamente anche dal giudice di legittimità; nel secondo caso si tratta di stabilire quale fu l’effettivo comportamento in discussione e quindi si pone una questione di fatto, estranea al sindacato di legittimità.
(Cass. Penale, Sez. Quinta, sentenza 28 gennaio – 8 aprile 2014, n. 15710)

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