Il curatore fallimentare che falsifica un mandato di pagamento, effetivamente emesso dal Giudice, per appropriarsi di somme maggiori rispetto a quelle giudizialmente autorizzate commette il reato di peculato e non quello di truffa.
La Cassazione ribadisce il principio secondo cui nel reato di peculato il possesso del denaro è un antecedente della condotta appropriativa, mentre nella truffa gli artifici e i raggiri vengono posti in atto per ottenere il possesso del denaro.
Corte Suprema di Cassazione
Seconda Sezione Penale
Sentenza 8 – 26 gennaio 2010, n. 3327
[OMISSIS]
sul ricorso proposto dal PG presso la Corte d’Appello di Milano e da C.G.C. nel procedimento a carico di quest’ultima e di C.G.C. avverso la sentenza 25.10.07 della Corte d’Appello di Milano;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
udita in pubblica udienza la relazione del Consigliere Dott. Antonio Manna;
udito il Procuratore Generale nella persona del Dott. Carmine Stabile, che ha concluso per l’annullamento con rinvio dell’impugnata sentenza con assorbimento delle censure formulate nel ricorso della G.;
udita l’Avvocatura dello Stato – in persona dell’Avv. Luca Ventrella – per la parte civile Presidenza del Consiglio dei Ministri e Ministero della Giustizia, che ha depositato nota spese e conclusioni con cui ha chiesto dichiararsi inammissibile o comunque rigettarsi il ricorso della G.;
udito il difensore del C.G.C. – Avv. Stefano Tomolo -, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
All’esito di rito abbreviato, con sentenza 29.5.06 il GUP del Tribunale di Milano condannava G.C. e C.G.C. rispettivamente alla pena di anni 6 di reclusione e di anni 3 di reclusione ed Euro 3.000,00 di multa (previa concessione delle attenuanti generiche ed applicazione della continuazione e della diminuente del rito), la prima per plurimi delitti di falso materiale in atto pubblico (capi C e D dell’editto accusatorio) e peculato (capi A e B), il secondo per il delitto di riciclaggio (capo F),nonche’ entrambi al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili.
In sintesi, cosi’ la sentenza di prime cure ricostruiva la vicenda: a seguito della denuncia di N.G., titolare di uno studio commercialista di cui G.C. era socia, emergeva che nei conti correnti intestati ad alcune procedure fallimentari, di cui la stessa G. era curatrice, erano state prelevate ingenti somme di denaro sulla base di autorizzazioni al pagamento formalmente emesse dal giudice delegato al fallimento, ma poi alterate negli importi e nei relativi beneficiari. In particolare, a giovarsi di tali distrazioni di denaro (circa 2,5 milioni di Euro) erano stati ifratelli B.A. e B.C., OMISSIS S.p.A. ed altre societa’ gestite dagli stessi germani.
A sua volta, il denaro indebitamente corrisposto dalla G. ai B. e alle societa’ ad essi riconducibili era in larga parte confluito sui c/c degli stessi B. presso la Banca OMISSIS di cui, all’epoca dei fatti (tra l'(OMISSIS)) era direttore generale C.G.C. e direttore di sala M.A. (quest’ultimo ed i B. erano stati separatamente processati e condannati).
In breve, la G. agiva mediante la falsificazione delle autorizzazioni al prelievo, con cui il giudice delegato al fallimento acconsentiva ai vari pagamenti della procedura, compresi quelli dei creditori che dovevano essere soddisfatti in prededuzione; la G. presentava alla banca, presso cui era stato acceso il conto corrente della procedura fallimentare, l’autorizzazione al prelievo, regolarmente firmata dal giudice, ma in cui era stato omesso di riportare l’importo della somma in lettere; grazie a cio’ l’imputata poteva modificare l’indicazione della somma riportata in cifre e poi inserire l’importo, cosi’ modificato, anche in lettere; in questo modo, la somma originariamente autorizzata dal giudice veniva erogata all’avente diritto, mentre la somma residua, frutto della manipolazione del provvedimento, veniva utilizzata a favore dei fratelli B. e di altri destinatari, il cui nominativo era stato indebitamente aggiunto dalla G. nella stessa autorizzazione al prelievo.
Quanto al C., il GUP ne aveva ritenuto la penale responsabilita’ ai sensi del combinato disposto degli artt. 40 cpv. e 648 bis c.p., perche’, pur essendo responsabile delle segnalazioni antiriciclaggio ai sensi del regolamento della banca, non aver impedito il riciclaggio del danaro fatto pervenire dalla G. ai fratelli B. attraverso le sopra descritte operazioni, nonostante che nella sua posizione di direttore generale della Banca OMISSIS, piccola banca monofiliale, non potesse ignorare le anomalie delle operazioni bancarie poste in essere dai B., importanti clienti dell’istituto di credito; era altresi’ verosimile che nell’ambiente dei funzionali e degli altri dipendenti della banca medesima si fosse certamente parlato di tali anomalie, che il C. medesimo aveva avuto modo di notare quanto meno in occasione di una pratica di fido, tale da porloin condizione di trarre elementi di sospetto dall’entita’ dei versamenti e dalle strane modalita’ di giroconto mediante utilizzo di erronee causali; a cio’ dovevano aggiungersi, proseguiva la sentenza di primo grado, le dichiarazioni dell’imputato di reato connesso M.A. (all’epoca direttore di sala), che aveva riferito di aver segnalato al C. le anomalie di registrazioni di movimenti di prelievo e di versamento in contanti effettuati dai B. in luogo di normali giroconto. Per la precisione, il denaro che la G. aveva fatto pervenire a OMISSIS S.p.A. (nell’ordine di svariati milioni di Euro) veniva riversato su altri c/c di pertinenza dei fratelli B., accesi sempre presso la filiale della Banca OMISSIS, attribuendo falsamente a tali giroconto causali indicative di prelievi in contanti e di versamento- ancora in contanti – su tali c/c, in modo da ostacolare l’individuazione dell’illecita provenienza del denaro e la sua destinazione ultima.
Con sentenza 25.10.07 la Corte d’Appello di Milano assolveva il C. dal reato ascrittogli perche’ il fatto non costituisce reato e, qualificati come truffa i fatti di cui ai capi A e B della rubrica, riduceva la pena a carico della G. ad anni 5 di reclusione.
A tale diversa qualificazione giuridica la sentenza di secondo grado perveniva in base al rilievo che, prima dell’autorizzazione del G.D. e del rilascio di mandati di pagamento, la G. non aveva ancora il possesso, neppure mediato, delle somme della procedura depositate sui conti correnti intestati ai vari fallimenti; con l’emissione dei mandati l’imputata acquisiva l’autorizzazione al legittimo prelievo delle somme e, con essa, la disponibilita’ giuridica; ma soltanto con l’alterazione dei mandati (e, quindi, con la commissione dei reati di falso materiale) la G. acquisiva – ad avviso della Corte territoriale – il possesso delle somme ulteriori rispetto a quelle autorizzate, oggetto della sua appropriazione; il possesso di queste ultime era, quindi, conseguenza della condotta truffaldina dell’imputata in quanto acquisito mediante artifici e raggiri.
Per quel che concerneva la posizione del C., la Corte territoriale escludeva l’elemento soggettivo del reato di riciclaggio contestatogli ritenendo insufficienti gli indizi a suo carico valutati dal GUP circa la consapevolezza dell’illecita provenienza del denaro versato dai fratelli B. sui c/c accesi presso la Banca CrediEuronord s.c.a.r.l., nonostante l’anomalia delle operazioni bancarie eseguitevi.
Ricorrevano il PG presso la Corte d’Appello di Milano e la G. contro detta sentenza, di cui chiedevano l’annullamento.
Ricorso del PG.
Con il primo motivo di ricorso il PG lamentava che la Corte territoriale aveva riqualificato come violazioni dell’art. 640 c.p., i reati di peculato originariamente ritenuti dal Tribunale, sull’erroneo presupposto che la G. non avesse il possesso mediato delle somme depositate sui conti correnti intestati ai vari fallimenti; tale possesso andava – invece – riconosciuto perche’ per possesso di bene pubblico ai fini dell’ipotesi delittuosa di cui all’art. 314 c.p., doveva intendersi non soltanto la materiale detenzione del bene stesso, ma anche la sua disponibilita’ giuridica, ravvisabile ogni qual volta il soggetto agente fosse stato in grado, mediante atto dispositivo di sua competenza o connesso a prassi e consuetudini invalse nell’ufficio, di ingerirsi nel maneggio o nella disponibilita’ di denaro e di conseguire quanto poi oggetto di appropriazione. A sua volta tale possesso di denaro poteva anche essere mediato e far capo congiuntamente a piu’ pubblici ufficiali, qualora le norme prevedessero il concorso di piu’ organi: era questa l’ipotesi concernente la G., che predisponeva i mandati di pagamento (da sottoporre al G.D.) per le banche, aveva la gestione e la disponibilita’ dei c/c fallimentari, a tale titolo era abilitata a chiedere al giudice l’autorizzazione ad effettuare i pagamenti ai creditori del fallimento e poteva disporre i prelievi presso l’istituto di credito che aveva in deposito le somme.
In tal senso – proseguiva il PG ricorrente – si era pronunciata con sentenza del 18.12.07 la Sez. 6^ di questa S.C. in fattispecie del tutto analoga, sempre a carico della G. e con riferimenti ad altre procedure fallimentari.
Con il secondo motivo di ricorso il PG censurava l’impugnata sentenza perche’ aveva escluso per il C. l’elemento soggettivo del delitto p. e p. ex art. 648 bis c.p., prescindendo totalmente dal suo ruolo di responsabile dell’applicazione della normativa anti-riciclaggio, che per legge lo obbligava ad identificazione, registrazione, conservazione dei dati e controllo dei mezzi di pagamento: invece il C., in violazione di tali obblighi, non aveva effettuato ne’ controlli ne’ approfondimenti, ne’ valutazioni sulle operazioni effettuate presso la sua piccola banca dai B., in tal modo non impedendo che costoro se ne servissero per operazioni di riciclaggio.
D’altronde – proseguiva il ricorso del PG nel dolersi dell’erronea valutazione del materiale probatorio ad opera dei giudici d’appello – nel corso dell’interrogatorio del (OMISSIS) il C. non aveva negato che costituissero riciclaggio le operazioni poste in essere dai B., cosi’ come non aveva negato le loro eccessive richieste di blocchetti di assegni, i suoi rapporti diretti con i summenzionati fratelli, la sua stabile presenza all’interno della (unica) filiale della Banca OMISSIS., le segnalazioni verbali ricevute dal M. circa l’anomalia delle operazioni poste in essere dai B. (tra i clienti piu’ presenti ed attivi della banca), i versamenti c.d. virtuali da loro effettuati, segnalazioni cui il C. aveva in sostanza risposto con il dire che si trattava pur sempre di acquisire liquidita’ per la banca.
In breve, il C. aveva ignorato la disciplina della L. n. 197 del 1991, all’epoca vigente ed i parametri, individuati dalla Banca d’Italia, di riconoscibilita’ di operazioni sospette contenuti nel c.d. decalogo pubblicato sulla G.U. del 14.2.01, omettendo di comunicare il tutto all’UIC.
Ulteriore elemento che giocava a carico del C. era dato dallo stesso tenore delle sue difese, dal momento che egli si era discolpato con il dire di non aver fatto nulla perche’ nessuna anomalia gli sarebbe stata segnalata, difesa – questa – contrastante con la condotta tenuta dal C. a fronte di altre operazioni sospette di riciclaggio poste in essere da soggetti diversi dai B., operazioni da lui segnalate pur senza aver previamente ricevuto, a sua volta, segnalazioni scritte da parte degli altri dipendenti della banca. A fronte di cio’ l’impugnata sentenza, nell’assolvere il C., aveva omesso di esaminare e di valutare il profilo decisivo dei doveri incombenti sul C. quale responsabile anti-riciclaggio, a maggior ragione tenuto conto del contesto operativo di piccole dimensioni dell’istituto di credito e delle certe ed evidenti anomalie delle operazioni realizzate dai B..
Ricorso della G..
Con unico motivo di doglianza la G., tramite il proprio difensore, censurava la pronuncia di secondo grado in punto di motivazione del trattamento sanzionatorio, perche’ l’analogo precedente valutato a suo carico non era, all’epoca, ancora passato in giudicato (formatosi soltanto il18.12.07) e dipendeva soltanto dallo stralcio di altri reati analoghi separatamente giudicati; pertanto, si trattava di condotte, pur reiterate, comunque rientranti in un unico disegno criminoso ed in un unico contesto cronologico. Oltre a cio’, il calcolo dell’incremento ex art. 81 cpv. c.p.,operato dall’impugnata sentenza rappresentava una sostanziale reformatio in peius in assenza di gravame sul punto, ad onta dell’apparente riduzione di pena finale.
Nelle more, la difesa del C. depositava memoria con cui chiedeva la declaratoria di inammissibilita’ o, in subordine, il rigetto del ricorso del PG.
1 – Osserva la Corte che il primo motivo del ricorso del PG e’ fondato, dovendosi condividere e ribadire le considerazioni gia’ svolte da questa Suprema Corte, Sez. 6^, con sentenza n. 16980 del 18.12.07, dep. 24.4.08, rv. 239842, emessa nei confronti della stessa G. e di altri.
Si premetta che da tempo la giurisprudenza di legittimità ha delineato la differenza tra i reati di peculato e truffa, chiarendo che nel primo il possesso del denaro e’ un antecedente della condotta appropriativa, mentre nel secondo la condotta fraudolenta, attuata mediante artifici e/o raggiri, e’ finalizzata a consentire al soggetto agente di entrare in possesso del denaro stesso, per poi appropriarsene (tra le tante, cfr. Cass. Sez. 6^ n. 6753 del 4.6.97, dep. 8.6.98, rv. 211009; Finocchi e altri).
Si tratta di orientamento pacifico, che traccia una precisa linea di demarcazione tra le due figure delittuose, ma che non puo’ invocarsi per qualificare come violazioni dell’art. 640 c.p., i reati alla G. ascritti ai capi A e B dell’editto accusatorio.
Infatti, proprio in base ai criteri differenziali indicati da tale indirizzo giurisprudenziale si perviene a configurare, nella specie, il delitto di peculato.
Dalle sentenze di merito risulta infatti che la G. si e’ appropriata delle somme di denaro di cui aveva la disponibilita’ nella qualita’ di curatrice fallimentare: l’imputata accedeva ai conti correnti del fallimento in forza dell’autorizzazione rilasciatale dal giudice delegato; nella qualita’ di curatrice riceveva il denaro dalla banca; sempre in tale qualita’ distribuiva le somme ai vari creditori, trattenendo per se’ gli importi ulteriori, frutto della falsificazione. Ebbene in tale condotta la falsificazione non ha costituito l’artificio attraverso cui l’imputata ha avuto la disponibilita’ del denaro, che invece e’ stata acquisita attraverso le autorizzazioni che il giudice delegato le ha rilasciato in quanto curatrice fallimentare, ancor prima che tali autorizzazioni venissero – poi – parzialmente alterate.
Pur trattandosi di condotta al limite fra le due fattispecie astratte (artt. 314 e 640 c.p.), nondimeno deve escludersi che l’impossessamento del denaro sia diretta conseguenza dell’inganno, in quanto la falsa documentazione e’servita soltanto a favorire il materiale trapasso delle somme in quantita’ maggiore a quella originariamente autorizzata, laddove la disponibilita’ del denaro e’ stata conseguita dall’imputata gia’ nella qualita’ di curatrice fallimentare, sia pure con l’integrazione costituita dall’autorizzazione del G.D. al pagamento dei creditori. In sostanza, e’ vero che in quanto curatrice fallimentare non aveva – da sola – la disponibilita’ delle somme incassate nell’esercizio delle sue funzioni (nel senso che non poteva prelevarle senza autorizzazione del G.D.), tuttavia tale parziale disponibilita’ (giuridica) veniva integrata e concretizzata ogni qual volta riceveva dal giudice delegato le autorizzazioni ad effettuare i pagamenti ai vari creditori, ancor prima (giova ribadire) che la G. le falsificasse nell’importo e nei destinatali. Di conseguenza l’imputata, curatrice fallimentare, quindi organo dell’ufficio fallimentare e pubblico ufficiale (v. Cass. Sez. 6^ n. 792 del 3.11.82, Bellabarba), si e’ appropriata del denaro di cui ha avuto la disponibilita’ in forza del provvedimento giudiziario di autorizzazione al pagamento dei creditori, ponendo in essere il reato di peculato.
L’errore in cui e’ incorsa l’impugnata sentenza risiede nel non aver considerato che per possesso del bene pubblico ai fini dell’ipotesi delittuosa di cui all’art. 314 c.p., deve intendersi non soltanto la materiale detenzione del bene, ma anche la sua disponibilita’ giuridica, ravvisabile ogni qual volta il soggetto agente sia in grado, mediante atto dispositivo di sua competenza o connesso a prassi e consuetudini invalse nell’ufficio, di ingerirsi nel maneggio o nella disponibilita’ di denaro e di conseguire quanto poi oggetto di appropriazione (cfr. Cass. Sez. 6^ n. 11633 del 22.1.07, dep. 20.3.07, rv. 236146, Guida; cfr. altresi’ Cass. Sez. 6^ n. 2959 dell’11.12.86,dep. 11.3.87, rv. 175301, Bianconi).
A sua volta tale possesso di denaro puo’ anche essere mediato e far capo anche congiuntamente a piu’ pubblici ufficiali, qualora le norme ne prevedano il concorso (cfr. Cass. Sez. 6^ n. 5502 dell’11.1.96, dep. 4.6.96, rv. 204987,Zini ed altri; conf. Cass. n. 10680/88, rv. 179605; Cass. n. 8116/88, rv. 178877; Cass. n. 10529/86, rv. 173877). Rafforza siffatta conclusione il rilievo – civilistico – che la dichiarazione di fallimento determina un pignoramento generale del patrimonio del fallito e ne attribuisce l’amministrazione al curatore, che la svolge mediante atti dispositivi rispetto ai quali l’autorizzazione del G.D. si configura come mero atto integrativo dell’efficacia.
Pertanto, va ribadito il principio per cui integra il delitto di peculato – e non quello di truffa aggravata – la condotta del curatore fallimentare che si appropria del denaro di cui abbia avuto la preventiva disponibilita’ in forza del provvedimento giudiziario di autorizzazione al pagamento dei creditori, dovendosi ritenere irrilevante a tal fine la successiva, parziale, falsificazione degli importi delle somme oggetto delle originarie autorizzazioni al prelievo da parte del giudice.
La falsa applicazione degli artt. 314 e 640 c.p., operata nel caso in oggetto dalla gravata pronuncia ne impone l’annullamento con rinvio affinche’ nelgiudizio ex art. 627 c.p.p., ci si attenga al principio di cui sopra.
L’accoglimento del ricorso del PG assorbe quello della G., relativo alsolo trattamento sanzionatorio.
2 – Anche il secondo motivo di ricorso del PG e’ fondato, risultando la motivazione dell’impugnata sentenza viziata dall’atomizzazione dei plurimi indizi da cui la pronuncia di prime cure aveva desunto che il C. era consapevole dell’illecita provenienza dei capitali versati e movimentati dai B. presso la Banca OMISSIS, plurimi indizi che il Tribunale aveva ravvisato nelle seguenti risultanze di fatto:
1) il C. ricopriva il ruolo di responsabile dell’applicazione della normativa anti-riciclaggio, in quanto tale tenuto per legge all’adempimento formale degli obblighi di identificazione, registrazione, conservazione deidati e controllo dei mezzi di pagamento;
2) la Banca OMISSIS aveva una sola filiale;
3) i B. erano importanti clienti dell’istituto di credito;
4) era verosimile che nell’ambiente dei funzionali e dei dipendenti della banca si fosse parlato dell’anomala operativita’ dei c/c dei B.;
5) quanto meno in occasione dell’istruttoria di una pratica di fido l’imputato aveva avuto modo di esaminare i movimenti dei conti di R.M.I. e di notare la sospetta entita’ dei versamenti e le strane modalita’ di giroconto da parte dei B. mediante utilizzo di erronee causali;
6) il M. (all’epoca direttore di sala) aveva riferito di aver segnalato al C. le anomalie di registrazioni di movimenti di prelievo e di versamento in contanti effettuati dai B. in luogo di normali giroconto.
Ora, tralasciata la mera congettura che precede sub 4), quanto agli altri indizi la Corte territoriale esclude in punto di fatto solo quello desunto dal narrato proveniente dal M., nel senso che ritiene le sue dichiarazioni generiche, non verosimili, prive di riscontri esterni e contraddittorie con riferimento all’epoca in cui il C. avrebbe rassicurato il M. medesimo in ordine all’operativita’ dei c/c riferibili ai fratelli B..
Non smentisce, invece, la storicita’ degli altri indizi che precedono sub 1), 2), 3) e 5), nel senso che o si limita a svilirne la singola significativita’ (afferma che, pur essendo i B. importanti clienti della banca, non erapero’ provato che costoro avessero rapporti diretti con il C. e/o che costui ne monitorasse i movimenti sui c/c; asserisce che alla pratica di fido il C. aveva partecipato solo dando un parere, uniformandosi a quello gia’ formulato dall’Ufficio fidi e senza che fosse provato che avesse approfonditamente esaminato i movimenti dei conti di R.M.I. notandone le anomalie), o non la esamina affatto (quanto alla banca monofiliale e al ruolo del C. quale responsabile dell’applicazione della normativa antiriciclaggio, ruolo – peraltro – riconosciuto dalla stessa difesa delprevenuto).
Orbene, in ordine al fatto che l’importanza dei B. come clienti non dimostra che l’imputato ne avesse mai controllato i conti e le relative operativita’, la motivazione dell’impugnata sentenza trascura che, se cio’ fosse stato acclarato, ci si sarebbe trovati davanti ad una vera e propria prova – e non gia’ ad un mero indizio – della consapevolezza del riciclaggio in discorso, posto che nemmeno la Corte territoriale dubita in punto di fatto delle anomalie evidenziate dalla sentenza di primo grado (il contrasto e’ solo sulla prova dell’elemento psicologico del reato).
Lo stesso dicasi per quel che concerne la partecipazione del C. alla pratica di fido per i B.: se si fosse incontrovertibilmente appurato che in quell’occasione egli aveva approfonditamente esaminato i movimenti dei conti di R.M.I. notandone le anomalie, senza nel contempo provvedere alle segnalazioni di legge, cio’ di per se’ avrebbe integrato prova della consapevolezza dell’illecita provenienza delle liquidita’ riversate dai fratelli B. su c/c di loro pertinenza.
In altre parole, lungi dall’apprezzare qualitativamente tali indizi, la Corte territoriale li ha svalutati in quanto ognuno di essi non univoco e sprovvisto di autonoma ed autosufficiente valenza probatoria, il che, com’e’ ovvio, e’ proprio del carattere anfibologico del singolo indizio.
Dunque, in cio’ deve ravvisarsi una prima violazione dell’art. 192 c.p.p.,comma 2.
Una seconda violazione di tale disposto si riscontra nell’aver proceduto l’impugnata sentenza ad una valutazione atomizzata e parcellizzata, anziche’ complessiva ed unitaria, quanto meno degli indizi che precedono sub 1), 2), 3) e 5).
Infatti, conformemente al noto insegnamento giurisprudenziale di questa S.C. (cfr., per tutte, Cass. S.U. n. 33748 del 12.7.05, dep. 20.9.05, rv. 231678, Marinino; Cass. Sez. U n. 6682 del 4.2.92, dep. 4.6.92, rv. 191230, PM e p.c. in proc. Musumeci e altri), deve qui ribadirsi che la regola metodologica desumibile dall’art. 192 c.p.p., comma 2, comporta che, valutati singolarmente gli indizi per saggiarne la significativita’ individuale ed acquisita tale valenza indicativa (sia pure di portata possibilistica e non univoca), se ne effettui poi un esame globale ed unitario che possa, se del caso, superare l’ambiguita’ indicativa di ciascun elemento probatorio, perche’ nella valutazione complessiva ogni indizio si somma e si integra con gli altri, sicche’ l’insieme puo’ essere apprezzato in una prospettiva globale e unitaria tendente a porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimocontesto, cosi’ potenzialmente assumendo quel pregnante ed univoco significato dimostrativo che consente di ritenere conseguita la prova logica del fatto,non meno qualificata di quella diretta o storica.
E’ pur vero che la motivazione, sul punto, della gravata pronuncia esordisce con il dire che “Gli elementi valorizzati dal Giudice di primo grado, partitamene ed unitariamente considerati, non consentono, tuttavia, dicondividere le predette conclusioni”, ma poi – in concreto – si limita ad una disamina parcellizzata e non gia’ complessiva degli elementi indiziali raccolti.
3 – La motivazione dei giudici d’appello e’ altresi’ contraddittoria laddove,dopo aver dato atto della posizione del C. quale direttore generaledell’istituto di credito, nega che egli avesse compiti ispettivi o di verifica dei movimenti finanziari senza, pero’, nel contempo smentire in punto di fatto due rilevanti circostanze ritenute dal Tribunale e cioe’ l’avere la Banca OMISSIS una sola filiale ed il rivestire il C. il ruolo di responsabile dell’applicazione della normativa anti-riciclaggio, in quanto tale tenuto all’adempimento formale degli obblighi di identificazione, registrazione, conservazione dei dati e controllo dei mezzi di pagamento.
Evidentemente, delle due l’una: o il C. non aveva specifiche competenze ispettive ed allora non rivestiva il ruolo di responsabile dell’applicazione della normativa anti-riciclaggio, oppure ricopriva tale incarico e, quindi, tali competenze gli erano proprie.
Poiche’, come si e’ gia’ detto, neppure l’impugnata sentenza nega che il C. fosse responsabile dell’applicazione della normativa anti-riciclaggio, deve concludersi che gli erano connaturati compiti di controllo.
La contraria affermazione che si legge nella gravata pronuncia contraddice un presupposto di fatto che la stessa Corte territoriale da per pacifico.
4 – In conclusione, si annulla con rinvio la sentenza impugnata in riferimento al C. e, in riferimento alla G., in relazione ai delitti di truffa, che vanno invece qualificati come peculato.
L’accoglimento del ricorso del PG assorbe quello della G. (relativo alsolo trattamento sanzionatorio).
Si dispone la trasmissione degli atti ad altra sezione della Corte di Appello di Milano per nuovo giudizio, nel quale essa si atterra’ ai principi innanzi formulati.
Ex art. 624 c.p.p., comma 1, si dichiara passata in giudicato la sentenza impugnata in riferimento al giudizio di responsabilita’ (non investito da ricorso) per i delitti di falso ascritti alla G.. Il giudice del rinvio provvedera’ anche sulle spese di questo grado daliquidare in favore della parte civile costituita.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, Seconda Sezione Penale, annulla con rinvio la sentenza impugnata in riferimento a C.G.C. e, in riferimento a G.C., in relazione ai delitti di truffa da qualificare come peculato.
Ritenuto assorbito il ricorso della G., dispone trasmettersi gli atti ad altra sezione della Corte di Appello di Milano per nuovo giudizio.
Dichiara passata in giudicato la sentenza impugnata in riferimento al giudizio di responsabilita’ per i delitti di falso ascritti alla C.G.C. Rimette al giudice del rinvio le spese di questo grado da liquidare in favore della parte civile costituita.
Cosi’ deciso in Roma, il 8 gennaio 2010.
Depositato in Cancelleria il 26 gennaio 2010