Configura il delitto di estorsione la condotta di colui che con ingiurie e minacce di morte, costringe la ex moglie a lasciare l’abitazione coniugale assegnatole nel corso del giudizio civile. Pur essendo l’appartamento di proprietà dei familiari del ricorrente l’ingiusto profitto è evidente, posto che l’imputato, essendo stato l’immobile affidato alla moglie sia in sede di separazione che di divorzio, non ne aveva la disponibilità.

 

 
Suprema Corte di Cassazione
Sezione Seconda Penale
Sentenza 22 gennaio – 20 aprile 2010, n. 15111
 
Con sentenza del 26.2.2008 la Corte di appello di Napoli confermava la sentenza emessa dal GUP del Tribunale di S. Maria C.V. in data 4.6.2006 di condanna del ricorrente per il reato di estorsione alla pena di anni due, mesi due di reclusione ed Euro 300,00 di multa. L’imputato avrebbe costretto la moglie alla quale prima in sede di separazione poi in sede di divorzio era stato affidata l’abitazione coniugale di proprietà dei familiari del ricorrente con ingiurie e minacce di morte ad abbandonare la detta abitazione e trasferirsi altrove. Ricorre l’imputato che con un primo motivo allega che manca l’elemento dell’ingiusto profitto perchè l’abitazione non era di proprietà della parte offesa e questa aveva già manifestato l’intenzione di trasferirsi altrove.
Inoltre le dichiarazioni della donna erano prive di sostanziali conferme.
Infine, al più, era ravvisabile il reato di cui all’art. 393 c.p. in quanto il ricorrente poteva adire il giudice per ottenere l’immobile che era di sua proprietà.
Il ricorso, stante la sua manifesta infondatezza, va dichiarato inammissibile.
Circa il primo motivo i giudici di merito hanno accertato che in seguito alle minacce, insulti ed atti di violenza posti in essere dall’imputato la moglie fu indotta a lasciare l’abitazione che le era stato affidato sia in sede di separazione che di divorzio.
Tali episodi emergono dalle precise ed univoche dichiarazioni erse dalla p.o. e il giudice di primo grado ha indicato i riscontri derivanti dalle dichiarazioni rese dai testi I., G.S., S.A., M.G..
Il motivo è assolutamente generico perchè ignora le dette dichiarazioni e non sottopone neppure a specifiche censure le dichiarazioni della moglie.
L’ipotesi che la stessa abbia volontariamente abbandonato l’appartamento perchè desiderava spostarsi altrove è smentita dalle sentenze di merito e non vengono indicati gli elementi dai quali questa ipotesi sarebbe confermata. Pur essendo l’appartamento di proprietà dei familiari del ricorrente l’ingiusto profitto è evidente, posto che l’imputato, essendo stato l’immobile affidato alla moglie sia in sede di separazione che di divorzio, non ne aveva la disponibilità.
Quanto all’ultima doglianza circa l’applicabilità dell’art. 393 c.p., il motivo è generico.
Certamente l’imputato poteva in astratto adire il giudice ma facendo valere ragioni di diritto che non vengono nemmeno indicate.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di mille Euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento di Euro mille alla Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 22 gennaio 2010.
Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2010.

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