Con un’interessante pronucia la Suprema Corte traccia i confini e la disciplina del c.d. diritto all’oblio, inteso come legittima aspettativa della persona ad essere dimenticata dall’opinione pubblica e contrapposto all’interesse pubblico alla informazione: i beni della riservatezza e della reputazione compressi dall’interesse pubblico all’informazione, quando la notizia è attuale, tendono a riespandersi con il trascorrere del tempo quando va, via via, scemando l’interesse pubblico.

 

 
 Corte di Cassazione
Sezione Quinta Penale
Sentenza 17 luglio – 24 novembre 2009, n. 45051
 
[OMISSIS]
F.V. e V.B. nelle qualità di seguito specificate, erano chiamati a rispondere, innanzi il Tribunale di Roma dei seguenti addebiti: la F.V. del reato di cui all’art. 595 c.p., commi 1, 2 e 3, perché, quale autrice di un servizio giornalistico apparso nel corso della trasmissione televisiva “Porta a Porta Rai 1”, sul delitto dell'[OMISSSIS], offendeva la reputazione di M.P. nonché dei di lui figli M.M. e M.D., accostando l’omicidio di F.D.T.A., rispettivamente moglie e madre dei predetti, a misteriosi conti miliardari, ad una relazione extraconiugale della vittima con un funzionario dei servizi segreti, ad un desiderio della vittima di divorziare, ai fondi neri del SISDE, a presunti depistaggi, nonché affermando che M.P. era stato sospettato dell’omicidio della moglie, ma scagionato grazie all’analisi del DNA e che era stato accusato da una donna (P.E. – come si ricava dalle immagini – che avrebbe fornito ai magistrati nuovi elementi “consegnando anche gli abiti che l’uomo avrebbe indossato il giorno dell’omicidio”), omettendo di riferire che la P. era stata condannata per diffamazione a mezzo stampa in danno di M.; con le aggravanti dell’attribuzione di un fatto determinato e di avere arrecato offeso con un mezzo di ampia diffusione; il V.B. del delitto di cui all’art. 595 c.p., L. 6 agosto 1990, n. 223, art. 30, comma 4, e L. 8 febbraio 1948, n. 41, art. 13, perchè, quale responsabile della trasmissione televisiva “Porta a Porta” e delegato al controllo, non impediva la programmazione del servizio di cui al capo precedente e quindi la commissione del delitto di diffazione, con attribuzione diun fatto determinato, in danno di M.P., M.M. e M.D..
Con sentenza del 21 giugno 2005, il Tribunale assolveva gli imputati dalle anzidette contestazioni con la formula dell’insussistenza del fatto.
Pronunciando sul gravame interposto, anche agli effetti penali, dalle parti civili avverso l’anzidetta pronuncia, la Corte di Appello di Roma, con la sentenza indicata in epigrafe, ha ribaltato il giudizio assolutorio, affermando la penale responsabilità degli imputati per i reati loro rispettivamente ascritti e, con la concessione delle attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, li condannava alla pena di euro 1.000,00, di multa ciascuno, con i doppi benefici per entrambi.
Li condannava, altresì, in solido, al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, da determinare in separata sede.
Avverso la pronuncia anzidetta il difensore degli imputati ha proposto ricorso per cassazione, affidato alle ragioni di censura indicate in parte motiva.
[OMISSIS]
La seconda censura attiene, invece, al merito della vicenda, contestando, in punto di diritto, il diniego del reclamato esercizio del diritto di cronaca, ai sensi dell’art. 51 c.p..
All’esame della doglianza giova premettere un sintetico riferimento alla vicenda sostanziale ed al suo sviluppo procedurale.
Nel corso della trasmissione televisiva “Porta a Porta” dedicata all’omicidio di F.D.T.A., noto alla cronoca nera  come delitto dell'[OMISSIS] (dalla località in cui venne commesso), nell’ambito di una serie di inchieste sui più noti gialli irrisolti, il conduttore aveva sottoposto al dibattito in studio, come sempre affidato ad ospiti appositamente invitati, un servizio giornalistico (o scheda) predisposto da F.V.. In esso, si passavano in rassegna anche le variegate ipotesi a suo tempo formulate a margine del clamoroso evento delittuoso, accostandolo all’esistenza di misteriosi conti miliardari all’estero, alla relazione extraconiugale che la vittima avrebbe intrattenuto con un funzionario dei servizi segreti, al desiderio della stessa di divorziare dal marito M.P., ai fondi neri del SISDE, a presunti depistaggi. Si era pure affermato che dell’omicidio era stato sospettato proprio il marito, poi scagionato grazie all’esame del DNA, accusato da una donna (tale P.E.) che, peraltro, aveva fornito agli inquirenti nuovi elementi, consegnando anche gli abiti che l’uomo avrebbe indossato il giorno dell’omicidio, senza però riferire che per tali dichiarazioni la stessa P. era stata, poi, dichiarata colpevole del reato di diffamazione a mezzo stampa nei confronti del M.
A seguito della querela proposta dallo stesso M. e dai suoi figli, che avevano ritenuto diffamatorio il contenuto della trasmissione televisiva, il Tribunale di Roma, pur dando atto dell’incompletezza della notizia e dell’approssimazione dell’approccio giornalistico ad una vicenda di particolare complessità, aveva dubitato della valenza diffamatoria, osservando che, a tutto concedere, sarebbe stato operante nella fattispecie l’esimente dell’art. 51 c.p., ricorrendone tutti i presupposti, ossia l’interesse pubblico, la verità del fatto narrato e la continenza del modo espositivo.
Di tutt’altro avviso si è detta, poi, la Corte di merito, che ha, invece, rilevato l’obiettiva valenza diffamatoria del servizio.
Al riguardo, ha osservato che dal verbale di trascrizione della trasmissione non risultava la doverosa precisazione che nessuna delle ipotesi prospettate a margine dell’omicidio, ciascuna di per sé diffamatoria, avesse trovato riscontro nelle indagini. Infatti, la sola non conferma riguardava – piuttosto che le piste seguite – il solo fantomatico test DNA in persona del M. (o sull’abito asseritamente fornito dalla P.), in ordine al quale, peraltro, non era stato acquisito in atti alcun elemento di certezza.
Era certo, di contro, che non tutte le situazioni prospettate costituivano ipotesi investigative, in quanto alcune di esse (quali la presunta relazione adulterina od il desiderio della vittima di divorziare) erano solo congetture giornalistiche, peraltro storicamente smentite dalle persone informate nelle giornalistiche prodotte dalle parti offese.
Era certo, altresì, che la P., che avrebbe riferito dell’abito del M. consegnato agli inquirenti, era stata condannata per diffamazione e della relativa sentenza, passata in giudicato, la giornalista F. non aveva dato atto.
Altre notizie, invece, venivano da precedenti servizi giornalistici o da notizie di agenzia, in ordine alle quali era mancato il benché minimo controllo da parte dei responsabili della trasmissione.
In conclusione, la morte della nobildonna era stata gratuitamente accostata ad una serie di ipotesi oggettivamente diffamatorie, in un contesto oscuro ed inquietante di servizi segreti o depistaggi, con consequenziale pregiudizio per l’onore e la reputazione dei familiari.
Non ricorrevano i presupposti dell’esimente del diritto di cronaca, per mancanza di verità dei fatti riferiti, sub specie della mancata rigorosa verifica della attualità, al momento della trasmissione, delle variegate e più o meno immaginifiche ipotesi investigative ventilate durante le fasi (precedenti) delle indagini, senza costrutto, condotte per anni.
La lettura del giudice di appello appare formalmente e giuridicamente corretta e, in quanto tale, si sottrae al sindacato di legittimità.
Sulla base della congrua ed appagante motivazione, la Corte distrettuale ha ribaltato il giudizio di prime cure, dando specifico conto – confutandone la fondatezza – degli elementi argomentativi sulla base dei quali era maturato il diverso convincimento del primo giudice.
In esito a tale percorso logico-argomentativo è pervenuta alla conclusione che la rappresentazione televisiva avesse carettere obiettivamente diffamatorio vuoi per intrinseco contenuto, correlato all’accostamento dell’omicidio ad inquietanti scenari, vuoi per l’incompletezza dell’informazione. Tale ultimo rilievo è stato coerentemente legato alla parzialità della notizia, alla quale non aveva fatto riscontro la necessaria precisazione che le ipotesi coltivate non avevano trovato alcuna conferma, al mancato approfondimento delle stesse ipotesi ed all’omesso rigoroso controllo delle fonti, che avrebbero consentito alla giornalista di prendere atto – e riferire – delle smentite che le stesse avevano aliunde trovato o delle pronunce dell’autorità giudiziaria che, con decisione irrevocabile, ne avevano stigmatizzato l’inconsistenza.
Il rilievo anzidetto, che esaltava il carettere oggettivamente denigratorio del servizio, è poi, correttamente, refluito sul diverso versante delle valutazioni riguardanti i presupposti dell’esimente del diritto di cronaca, al cui riconoscimento ostava proprio il difetto della verità della notizia, apprezzabile per la già rilevata incompletezza dell’informazione, con l’ulteriore profilo critico della mancanza di attualità della stessa, posto che si trattava di mere ipotesi e congetture che non avevano trovato alcun seguito investigativo.
Ulteriore profilo di lesività avrebbe potuto – e può ora ravvisarsi – nella violazione del diritto all’oblio, che, peculiare espressione del diritto alla riservatezza – costituzionalmente presidiato in quanto primaria ed indeclinabile esigenza della persona – ha trovato di recente significativi riconoscimenti nella giurisprudenza civile di questa Corte Suprema (cfr., tra le altre, Cass. Sez. III, 9 aprile 1998, n. 3679). La nozione recepita dal giudice civile è, nei termini descrittivi, di giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia che in passato era stata legittimamente pubblicata.
In siffatta accezione il diritto può avere un riflesso – sia pure indiretto – anche in ambito penale, siccome strettamente correlato al bene giuridico della reputazione, specificamente tutelato dalla norma incriminatrice della diffamazione.
In particolare, con riferimento all’ipotesi della diffamazione a mezzo mass media, è risaputo che la libertà di stampa, precipua espressione del diritto di manifestazione del pensiero sancito dall’art. 21 Cost., comporta la compressione dei beni giuridici della riservatezza, dell’onore e della reputazione, che attenendo alla sfera dei diritti della persona, hanno pur essi dignità costituzionale (artt. 2 e 3 Cost.). Attualità della notizia e attualità dell’interesse pubblico costituiscono risvolti di una delle condizioni alle quali è subordinato l’esercizio del diritto di cronaca o di critica che, sostanziando quel presidio costituzionale, giustifica il sacrificio degli anzidetti beni giuridici ed integra, sul piano penale, la speciale esimente di cui all’art. 51 c.p..
Il decorso del tempo può attenuare l’attualità della notizia e far scemare, al tempo stesso, anche l’interesse pubblico all’informazione.
Può anche verificarsi, nondimeno, che all’effetto di dissolvenza dell’attualità della notizia non faccia riscontro l’affievolimento dell’interesse pubblico o che – non più attuale la notizia – riviva, per qualsivoglia ragione, l’interesse della sua diffusione.
Insomma, non può esservi corrispondenza o piena sovrapposizione cronologica tra attualità della notizia ed attualità dell’interesse pubblico alla divulgazione.
Nondimeno, in quest’ultima ipotesi, il persistente o rivitalizzato interesse pubblico, che – in costanza di attualità della notizia – doveva equilibrarsi con il diritto alla riservatezza, all’onore od alla reputazione, deve trovare – quando la notizia non è più attuale – un contemperamento con un nuovo diritto, quello all’oblio, come sopra delineato, anche nell’ulteriore accezione semantica di legittima aspettativa della persona ad essere dimenticata dall’opinione pubblica e rimossa dalla memoria collettiva.
In una rappresentazione plastica delle dinamiche ed interrelazioni tra i diritti coinvolti può tornare utile l’immagine che si riespande ove venga meno la forza che la costringeva. I beni della riservatezza e della reputazione compressi dall’interesse pubblico all’informazione, quando la notizia è attuale, tendono a riespandersi con il trascorrere del tempo quando va, via via, scemando l’interesse pubblico. Ciò avviene, però, anche grazie alla forza propulsiva del diritto all’oblio progressivamente maturatosi.
La riattualizzazione dell’interesse pubblico può giustificare una nuova compressione di quei beni, ma deve trovare un nuovo punto di equilibrio con il diritto all’oblio, la cui maturazione, nel frattempo, può aver lenito o rimarginato l’offesa arrecata alla reputazione dalla notizia a suo tempo diffusa ovvero, addirittura, ricostituito la stessa reputazione ove questa, per gravità della vicenda, fosse stata distrutta dalla legittima informazione.
La ricerca di un giusto bilanciamento delle opposte esigenze è particolarmente delicata nell’ipotesi in cui si tratti di notizie relative ad indagini riguardanti un grave episodio delittuoso, che, a suo tempo, abbia destato enorme impressione nell’opinione pubblica e che, al pari di tanti altri, sia rimasto senza un colpevole.
Anche se in sede di legittimità sono sconsigliate generalizzazioni esemplificative, proprio in quanto le enunciazioni di principio in materia penale risentono fortemente delle obiettive peculiarità del fatto, può comunque tentarsi una succinta schematizzazione, avendo ovviamente di mira le esigenze connesse alla cognizione dei fatti oggetto del presente giudizio.
Riferire, a distanza di tempo, dello sviluppo di indagini di polizia giudiziaria deve ritenersi consentito in una ricostruzione storica dell’evento, pure a distanza di tempo e persino in chiave di critica dell’operato degli inquirenti ed al modo in cui è stata svolta l’inchiesta. Non solo, ma secondo un fatto di costume oggi invalso e comunemente accettato, è consentito pure rivisitare in talk show televisivi gravi fatti delittuosi oggetto di indagini e persino di processo, nella ricerca di una verità mediatica in parallelo a quella sostanziale o a quella processuale. Iniziative di siffatto genere riscuotono, a quanto pare, apprezzabili indici di gradimento nell’utenza e sembrano inserirsi in un singolare fenomeno mediatico che tende a offrire una realtà immaginifica o virtuale capace, nondimeno, per forza di persuasione, di sovrapporsi – ove acriticamente recepita dagli utenti – a quella sostanziale o, quanto meno, a collocarsi in un ambito in cui i confini tra immaginario e reale diventano sempre più labili e non facilmente distinguibili.
Ma in tali casi l’obbligo deontologico del giornalista deve parametrarsi a criteri di rigore ancora maggiore dell’ordinario.
Non gli è, infatti, consentito, neppure in chiave retrospettiva, riferire di ipotesi investigative o di meri sospetti degli inquirenti (veri o presunti che siano) senza precisare, al tempo stesso, che quelle ipotesi o sospetti sono rimasti privi di riscontro.
Le ipotesi degli investigatori che non abbiano trovato conforto nelle indagini sono il nulla assoluto, cui deve essere inibita ogni rilevanza esterna in quanto la loro divulgazione, monca del relativo esito, è capace di nuocere alla reputazione ed all’onorabilità delle persone che siano state (ingiustamente) sospettate. Allo stesso modo – potrebbe dirsi – in cui non hanno dignità esterna e meritano di essere relegate nel dimenticatoio o definitivamente cestinate le bozze rivedute e corrette di un’opera letteraria o le riprese non riuscite di un grande film, tagliate in sede di montaggio.
Ove esigenze di ricostruzione storica od artistica lo richiedano e permanga – o si riattualizzi – l’interesse pubblico alla relativa propalazione, la notizia deve essere accompagnata dalla doverosa avvertenza che le tesi investigative sono rimaste a livello di mera ipotesi di lavoro in quanto non hanno trovato alcuna conferma o, addirittura, sono state decisamente smentite dallo sviluppo istruttorio.
Parimenti, può essere lecito riferire della qualità di indagato che una persona abbia assunto nell’ambito di una determinata inchiesta penale, ma – ove l’attività di indagine preliminare non abbia portato ad un epilogo tale da consentire il rinvio a giudizio e si sia conclusa con un decreto di archiviazione – il giornalista, che rievochi quella vicenda, è obbligato a darne conto, avendo il dovere giuridico di rendere una informazione completa e di effettuare, all’uopo, tutti i neccessari controlli per verificare quale approdo abbia mai avuto quella determinata indagine.
Alla stessa stregua, egli può riferire di determinate attività investigative, ma è tenuto a comunicarne l’esito, perchè dire che una persona è stata perquisista, controllata, o sottoposta a particolari esami (quali, ad esempio, DNA, stub o quant’altro) – nel quadro di un’indagine per gravo fatti delittuosi – senza precisare che quegli accertamenti hanno avuto riscontro negativo, significa ledere l’immagine e la reputazione della persona interessata ed il suo diritto all’oblio, come sopra enunciato.
Una notizia monca od incompleta è capace, infatti, di ledere l’onorabilità dell’interessato e la proiezione sociale della sua personalità. Solo la completezza dell’informazione può, infatti, consentire all’utente od al lettore di formarsi un corretto e ponderato giudizio di valore – o, semmai, di disvalore – su una data vicenda o su una determinata persona.
Quanto alle asserite fonti giornalistiche genericamente richiamate dagli imputati, l’avere acriticamente attinto ad esse od alle agenzie di stampa, senza ogni doverosa attività di verifica, non può giustificarne l’operato neanche a livello putativo, alla stregua di indiscusso insegnamento di questa Corte regolatrice secondo cui la scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca è ipotizzabile solo qualora, pur non essendo obiettivamente vero il fatto pubblicato, il giornalista abbia assolto all’obbligo di esaminare, controllare e verificare quanto oggetto della sua narrativa, alfine di vincere ogni dubbio, non essendo sufficiente l’affidamento riposto in buona fede sulla fonte, e, quando si intende pubblicare la notizia di un fatto lesivo dell’altrui reputazione, la verifica, per una deontologica esigenza di garanzia, va fatta quando ciò è possibile, interpellando la persona che della pubblicazione risulterebbe lesa, anche per riceverne eventuali giustificazioni o spiegazioni (cfr. Cass. Sez. V, 9 marzo 2006, n. 35003, Calabrese).
Nel caso di specie, correttamente il giudice di appello ha ritenuto che gli imputati, nelle rispettive qualità, siano venuti meno ai doveri deontologici, con ciò arrecando un danno ingiusto al M. ed ai suoi familiari, pur essi lesi dall’offesa alla memoria della loro congiunta, la cui tagica scomparsa è stata gratuitamente accostata a fatti riservati di vita familiare od a scenari oscuri ed inquietanti, quali rivenienti da un coacervo di mere congetture investigative o giornalistiche rimaste prive di riscontro o persino smentite da sentenza divenuta irrevocabile.
[OMISSIS]
 
 
 

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