La Corte Costituzionale ha dichiarato l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 120, comma 1, del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) nella parte in cui esclude che possano conseguire la patente di guida le persone condannate per i reati in materia di stupefacenti, fatti salvi gli effetti dei provvedimenti riabilitativi.
(Corte Costituzionale, sentenza 9 aprile 2019, n. 80)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giorgio LATTANZI;
Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 120 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come sostituito dall’art. 3, comma 52, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), promosso dal Tribunale ordinario di Torino, nel procedimento vertente tra A. D.G. e il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e altro, con ordinanza del 6 febbraio 2018, iscritta al n. 67 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 6 marzo 2019 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli.
Ritenuto in fatto
1.– Nel corso di un procedimento civile cautelare – promosso da un soggetto condannato per due reati di cessione e commercializzazione illecita di stupefacenti, che si era visto negare il rilascio della patente di guida dal competente Ufficio della Motorizzazione civile per la «non sussistenza dei requisiti morali di cui all’art. 120 comma 1° C.d.S.» – l’adito Tribunale ordinario di Torino, premessane la rilevanza, ha sollevato, sotto duplice profilo, questioni di legittimità costituzionale del predetto art. 120 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come sostituito dall’art. 3, comma 52, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica):
«a) con riferimento agli articoli 11 e 117 Cost., in relazione all’art. 7 Convenzione […] per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nella parte in cui prevede l’applicazione dei commi 1° e 2° a persone condannate per reati commessi prima dell’entrata in vigore della legge 15 luglio 2009 n. 94;
b) con riferimento agli articoli 3, 16, 25, 111 Cost., nella parte in cui prevede la revoca e il diniego della patente quale conseguenza automatica di una condanna per i reati di cui agli articoli 73 e 74 testo unico n. 309/1990, a prescindere da ogni valutazione sulla gravità del reato e sulle pene in concreto comminate».
2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio per il tramite dell’Avvocatura generale dello Stato, ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità per irrilevanza delle questioni relative alla revoca della patente, di cui al comma 2 del denunciato art. 120. Ha poi escluso la fondatezza delle questioni relative al diniego del titolo abilitativo di cui al precedente comma 1, in ragione della ritenuta natura non sanzionatoria di tale provvedimento, risolventesi nella mera constatazione dell’insussistenza dei requisiti morali prescritti per il conseguimento della patente di guida.
Tali conclusioni ha anche ribadito con memoria integrativa.
Considerato in diritto.
1.– L’art. 120 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come sostituito dall’art. 3, comma 52, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), sotto la rubrica «Requisiti morali per ottenere il rilascio dei titoli abilitativi di cui all’articolo 116», nei suoi commi 1 e 2, così testualmente dispone:
«1. Non possono conseguire la patente di guida i delinquenti abituali, professionali o per tendenza e coloro che sono o sono stati sottoposti a misure di sicurezza personali […], le persone condannate per i reati [in materia di stupefacenti] di cui agli articoli 73 e 74 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, fatti salvi gli effetti di provvedimenti riabilitativi […]»;
«2. […] se le condizioni soggettive indicate al primo periodo del comma 1 del presente articolo intervengono in data successiva al rilascio, il prefetto provvede alla revoca della patente di guida. La revoca non può essere disposta se sono trascorsi più di tre anni dalla data […] del passaggio in giudicato della sentenza di condanna per i reati indicati al primo periodo del medesimo comma 1».
2.– Con sentenza di questa Corte n. 22 del 2018 è già stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del comma 2 del predetto art. 120, «nella parte in cui – con riguardo all’ipotesi di condanna per reati di cui agli artt. 73 e 74 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), che intervenga in data successiva a quella del rilascio della patente di guida – dispone che il prefetto “provvede” – invece che “può provvedere” – alla revoca della patente».
La stessa sentenza ha ritenuto non fondata l’ulteriore questione relativa all’applicabilità della revoca del titolo abilitativo a persone condannate per reati commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009 (restando esclusa la revoca della patente solo in presenza di reati per i quali, antecedentemente a tale data, sia stata pronunciata sentenza ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale, stante la componente negoziale dell’istituto del patteggiamento: sentenza n. 281 del 2013).
2.1.– Le censure di violazione degli artt. 3, 16, 25, 111 e degli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, questi ultimi in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 – rivolte dal rimettente Tribunale ordinario di Torino al comma 2 del novellato art. 120 del cod. strada – prima ancora dal risultare pressoché integralmente superate dalla riferita sentenza n. 22 del 2018 – sono, però, come eccepito dall’Avvocatura generale dello Stato, comunque prive di rilevanza nel giudizio a quo, nel quale il provvedimento avverso cui è proposto ricorso non concerne la revoca, bensì il diniego del rilascio di una patente di guida.
Le correlative questioni vanno, per tal assorbente profilo, dichiarate, pertanto, inammissibili.
3.– La legittimità costituzionale del precedente comma 1 del predetto art. 120 è revocata in dubbio, sotto duplice profilo, dal Tribunale a quo.
Per un verso, il rimettente denuncia, infatti, l’illegittimità costituzionale di tale disposizione nella parte in cui ne conseguirebbe il diniego della patente di guida anche in via retroattiva per reati commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009. E ne prospetta, per questo aspetto, il contrasto con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 CEDU, per lesione del principio di irretroattività delle sanzioni sostanzialmente penali sancito dalla evocata norma convenzionale, come interpretata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Sotto altro e più generale profilo, dubita poi lo stesso giudice che l’“automatismo” del diniego del titolo di guida, che la normativa censurata direttamente ricollega ad intervenuta condanna per i reati in questione «a prescindere da ogni valutazione sulla gravità del reato e sulle pene in concreto comminate», violi gli artt. 3, 16, 25 e 111 Cost.
3.1. – Nel formulare la prima questione il Tribunale di Torino muove dalla considerazione che, nell’ordinamento interno, il «diniego di rilascio della patente non potrebbe essere qualificato come sanzione penale» e ritiene che non chiami per ciò in gioco i principi di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. Ma si pone poi il quesito – cui dà risposta affermativa – se «la revoca e il diniego di rilascio della patente di guida rientrino nella nozione di pena dell’art. 7 Convenzione […] per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali». Dal che, appunto, l’evocazione della suddetta norma europea come parametro interposto, ai fini della denunciata violazione degli artt. 117, primo comma, e 11 Cost., quest’ultimo impropriamente però richiamato, non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme convenzionali CEDU, alcuna limitazione della sovranità nazionale (sentenze n. 210 del 2013, n. 80 del 2011, n. 349 e n. 348 del 2007).
3.1.1.– La natura sostanzialmente sanzionatoria della non conseguibilità della patente, in ragione di subite condanne per reati in materia di stupefacenti, è erroneamente presupposta dal rimettente.
In conformità a quanto già ritenuto, con specifico riguardo alla revoca della patente, nella citata sentenza n. 22 del 2018 (in consonanza con la ivi richiamata giurisprudenza del giudice della nomofilachia), anche il diniego di rilascio del titolo di guida non ha natura sanzionatoria, né costituisce conseguenza accessoria della violazione di una disposizione in tema di circolazione stradale, ma rappresenta la constatazione dell’insussistenza originaria (o sopravvenuta) dei «requisiti morali» prescritti per il conseguimento di quel titolo di abilitazione.
Esclusa così in radice la natura sanzionatoria, o comunque afflittiva, della condizione ostativa sub comma 1 dell’art. 120 cod. strada, risulta non pertinente l’evocazione della giurisprudenza della Corte di Strasburgo sui criteri per l’attribuibilità di natura sostanzialmente penale a “sanzioni” non formalmente tali. Mentre – nella logica (appunto non punitiva ma individuativa delle condizioni soggettive ostative al conseguimento o al mantenimento del permesso di guida) che ispira la novella del 2009 – il diniego della patente anche per reati, in materia di stupefacenti, commessi anteriormente alla entrata in vigore della disposizione censurata, attiene al piano degli effetti riconducibili all’applicazione ratione temporis della norma stessa.
3.1.2.– Da qui, dunque, la non fondatezza di tale prima questione.
3.2.– La successiva questione relativa al cosiddetto “automatismo” del diniego di rilascio della patente a «persone condannate per i reati di cui agli articoli 73 e 74 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309» è del pari non fondata.
3.2.1.– Le ragioni che hanno comportato il superamento dell’automatismo della revoca prefettizia ad opera della ricordata sentenza n. 22 del 2018 – e, cioè, per un verso, la contraddittorietà dell’automatismo di tale revoca «rispetto alla discrezionalità della parallela misura del “ritiro” della patente che, ai sensi dell’art. 85 del d.P.R. n. 309 del 1990, il giudice che pronuncia la condanna per i reati in questione “può disporre”» e, per altro verso, la «indifferenziata valutazione di sopravvenienza di una condizione ostativa al mantenimento del titolo di abilitazione alla guida» a fronte della varietà di fattispecie cui possono aver riguardo i reati presupposti – non sono, infatti, neppure analogamente riferibili al diniego del titolo abilitativo.
E ciò in quanto tale diniego riflette una condizione ostativa che, diversamente dalla revoca del titolo, opera a monte del suo conseguimento e non incide su alcuna aspettativa consolidata dell’interessato. Inoltre non ricorre, in questo caso, la contraddizione, che ha assunto decisivo rilievo in tema di revoca della patente, tra obbligatorietà del provvedimento amministrativo e facoltatività della parallela misura adottabile dal giudice penale in relazione alla medesima fattispecie di reato. Infine, diversamente da quanto presupposto dal giudice a quo, l’effetto ostativo al conseguimento della patente, previsto dalla disposizione censurata, non incide in modo “indifferenziato” sulla posizione dei soggetti condannati per reati in materia di stupefacenti. La diversa gravità del reato commesso, unitamente alla condotta del reo successiva alla condanna, assume, infatti, determinante rilievo ai fini del possibile conseguimento (anche dopo un solo anno nel caso di condanna con pena sospesa) di un provvedimento riabilitativo (ex artt. 178 e 179 del codice penale), che restituisce al condannato il diritto a richiedere la patente di guida.
3.2.2.– Il censurato comma 1 dell’art. 120 cod. strada non viola pertanto, sotto alcun profilo, l’art. 3 Cost., né gli artt. 25 e 111 Cost. (questi ultimi solo genericamente, peraltro, evocati); mentre non pertinente è, infine, il parametro dell’art. 16 Cost., poiché la libertà di circolare non comporta, di per sé, il diritto di guidare veicoli a motore (sentenze n. 6 del 1962 e n. 274 del 2016).
Da ciò appunto la non fondatezza anche della questione da ultimo esaminata.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 120, comma 2, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come sostituito dall’art. 3, comma 52, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e in riferimento agli artt. 3, 16, 25 e 111 Cost., sollevate dal Tribunale ordinario di Torino, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 120, comma 1, del d.lgs. n. 285 del 1992, come sostituito dall’art. 3, comma 52, lettera a), della legge n. 94 del 2009, sollevate, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 della CEDU, e in riferimento agli artt. 3, 16, 25 e 111 Cost., dal Tribunale ordinario di Torino, con la medesima ordinanza.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2019.