Secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale, la cartella clinica, redatta da un medico di un ospedale pubblico, è caratterizzata dalla produttività di effetti incidenti su situazioni giuridiche soggettive di rilevanza pubblicistica, nonché dalla funzione della documentazione di attività compiute (o non compiute) dal pubblico ufficiale che ne assume la paternità.
La finalità dell’atto – assolutamente correlata alla sua immodificabilità – è quella di rispecchiare in maniera assolutamente fedele il decorso e l’evolversi della malattia e degli altri fatti clinici rilevanti, progressivamente e contestualmente al loro verificarsi. La permanenza nel documento nel luogo di lavoro del suo autore non può logicamente equivalere a una criptica autorizzazione a violare la sua primaria funzione di rappresentazione storica relativa a una degenza.
Ne deriva che le modifiche, le aggiunte, le alterazioni e le cancellazioni integrano falsità in atto pubblico, punibili in quanto tali. Nessun rilievo può essere riconosciuto all’intento dell’autore, posto che la fattispecie è caratterizzata da dolo generico e non da dolo specifico.
  
 
Corte Suprema di Cassazione
Sezione Quinta Penale
Sentenza 21 novembre 2011, n. 42917
 
[OMISSIS]
Con sentenza 18.1.2011, la corte di appello di Caltanissetta ha confermato la sentenza 27.6.08 del tribunale della stessa sede, con la quale [OMISSIS] è stato condannato alla pena di 8 mesi di reclusione, perché ritenuto colpevole del reato ex art. 476 c.p., perché in qualità di medico chirurgo in servizio nell’ospedale [OMISSIS] , dove [OMISSIS] era stato ricoverato dal [OMISSIS] , aveva aggiunto al diario giornaliero, nella parte rimasta in bianco immediatamente dopo le indicazioni relative al [OMISSIS] , la seguente dicitura “… visite, condizioni generali migliorate, continua terapia si somministrano tre sacche di plasma”, annotando tali dati non contestualmente al loro verificarsi; in tal modo alterava un atto pubblico vero.
I difensori dell’imputato hanno presentato ricorso per violazione di legge in riferimento all’art. 476 c.p. e vizio di motivazione: la dicitura contestata – corrispondente all’operato dell’[OMISSIS] , medico del [OMISSIS] – non venne apposta in quello stesso giorno, in quanto, questi, finito il turno, aveva lasciato il reparto, senza avere avuto tempo di riportare nel diario clinico i dati relativi alle condizioni dei degenti e le cure disposte e praticate, che risultavano però segnate nelle schede termometriche allegate alle cartelle cliniche.
L’attestazione relativa al degente [OMISSIS] non venne apposta il [OMISSIS], ma successivamente, anche se, nel frattempo quest’ultimo era deceduto e la polizia giudiziaria aveva eseguito una fotocopia della cartella in reparto, dove non figurava ancora la dicitura sulle condizioni e sulle cure disposte, anche se risultava dalla scheda termometrica del [OMISSIS]. I dati furono poi trascritti dall’[OMISSIS] nella cartella clinica solo al suo ritorno al reparto da questi dati storici emerge che non sussiste l’ipotesi di reato contestato.
Il dr. [OMISSIS] ha solo posticipato la redazione della relazione riportata nella cartella clinica che era rimasta nel reparto e ha un’importanza decisiva il fatto che questa non era stata ancora trasmessa e presa in carico dalla direzione sanitaria dell’ospedale. La disposizione, da parte sua, della somministrazione delle tre sacche di sangue risulta dalla scheda termometrica – allegata alla cartella clinica – di cui costituisce parte integrante ed inscindibile, e dalla attestazione del prelievo delle sacche dalla “banca” dell’ospedale.
In ogni caso non ricorre l’ipotesi di falso materiale in atto pubblico solo perché nella scheda termometrica non compariva la dicitura “… visita, condizioni generali migliorate, continua la terapia”, perché in essa sono contenute valutazioni implicite, posto che l’effettuazione della visita è conseguenza del fatto che il [OMISSIS] l’[OMISSIS] era il solo medico presente nel reparto. Pertanto l’annotazione tardiva riguarda dati anteriormente acquisiti e solo una valutazione puramente formalistica può far ritenere sussistente il reato, violando così la ratio della norma,che è quella di garantire l’assoluta affidabilità del documento, la sua completezza e la attestazione puntuale della diagnosi fatta dai sanitari e delle cure praticate durante la degenza. Pertanto la sentenza avrebbe dovuto escludere la ricorrenza dell’ipotesi di falso materiale, che richiede l’effettiva falsificazione del contenuto dell’atto, rispetto alla sua portata e alla sua funzione di rappresentazione storico-fattuale.
Il ricorso si articola in motivi manifestamente infondati.
Il quadro storico accertato in maniera concorde è il seguente: il giorno [OMISSIS] il dottor [OMISSIS] era medico di turno nel reparto dell’ospedale [OMISSIS] , in cui si trovava il degente [OMISSIS] , rimasto ricoverato dal [OMISSIS] ;
nel diario giornaliero non compariva alcuna annotazione sullo stato di salute e sul trattamento terapeutico;
il [OMISSIS]  è poi deceduto e la sua degenza è terminata il successivo [OMISSIS];
nel corso delle successive indagini, la polizia giudiziaria ha effettuato, il [OMISSIS], la fotocopia della cartella clinica del degente defunto e nessuna annotazione appare nel diario clinico, relativo al suindicato [OMISSIS];
nelle successive indagini, è stato acquisito, a mezzo del sequestro eseguito il 16.1.04. l’originale della cartella clinica, nel cui diario giornaliero del [OMISSIS], appare l’annotazione “… – visita, condizioni generali migliorate, continua terapia si somministrano tre sacche di plasma”;
l’[OMISSIS] ha ammesso di aver lui stesso apposta, tardivamente, tale annotazione.
Risulta quindi accertato che successivamente alla data indicata nel diario giornaliero sono stati indicati fatti (la visita medica, la terapia della somministrazione di tre sacche di plasma) non contestualmente al loro verificarsi.
In tal modo, il diario clinico, dopo la sua definitiva formazione per il giorno [OMISSIS], dopo la contestuale fine dell’analisi clinica e delle disposizioni terapeutiche del medico, dopo l’uscita del documento dalla disponibilità integrativa del suo autore, ha subito successivamente (tra il [OMISSIS] e il [OMISSIS]) un’aggiunta, che ne ha alterato il contenuto e conseguentemente la funzione.
La finalità dell’atto – assolutamente correlata alla sua immodificabilità – è quella di rispecchiare in maniera assolutamente fedele il decorso e l’evolversi della malattia e degli altri fatti clinici rilevanti, progressivamente e contestualmente al loro verificarsi. La permanenza nel documento nel luogo di lavoro del suo autore non può logicamente equivalere a una criptica autorizzazione a violare la sua primaria funzione di rappresentazione storica relativa a una degenza.
Secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale, la cartella clinica, redatta da un medico di un ospedale pubblico, è caratterizzata dalla produttività di effetti incidenti su situazioni giuridiche soggettive di rilevanza pubblicistica, nonché dalla funzione della documentazione di attività compiute (o non compiute) dal pubblico ufficiale che ne assume la paternità.
Ne deriva che le modifiche, le aggiunte, le alterazioni e le cancellazioni integrano falsità in atto pubblico, punibili in quanto tali. Nessun rilievo può essere riconosciuto all’intento dell’autore, posto che la fattispecie è caratterizzata da dolo generico e non da dolo specifico.
Nel caso in esame, va anche rilevato che la mancata documentazione di visita e di terapia del [OMISSIS], per il degente deceduto dopo un breve intervallo di tempo, è rimasta inalterata sino a tutto il [OMISSIS].
La mancanza di rilievo probatorio delle annotazioni sulla scheda termometrica è stata razionalmente affermata dalla corte di merito con due convincenti argomenti: questo documento non fa parte della cartella clinica; la sua inaffidabilità è dimostrata dalla mancanza di riferimento alla visita e alla constatazione del miglioramento del degente.
La precisa scansione degli eventi, la inconfutabile valenza dimostrativa della riferibilità all’[OMISSIS] della paternità dell’alterazione dell’atto pubblico, la consolidata giurisprudenza sulla sua qualificazione come falso materiale ex art. 476 c.p., l’inconsistenza, sul piano storico e valutativo, delle censure mosse alle sentenze dei giudici di merito, rendono il ricorso inammissibile.
Va rilevato che la data di consumazione del reato è compresa tra due date, di cui la prima [OMISSIS] comporta il riconoscimento della maturazione del termine di prescrizione, in data [OMISSIS]. Pertanto, secondo il principio del favor rei, quest’ultima deve prevalere su quella successiva[OMISSIS].
Il maturare della prescrizione, successivamente alla data di emissione della sentenza di appello, non porta però alla declaratoria di estinzione del reato.
Secondo un condivisibile orientamento interpretativo, la inammissibilità, conseguente alla manifesta infondatezza dei motivi, non consente l’instaurazione, in sede di legittimità, di un valido rapporto di impugnazione e impedisce di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p., ivi compreso l’eventuale decorso del termine di prescrizione (S.U. n. 23428 del 22.3.2005; sez. II, 21.4.2006, n. 19578).
Il ricorso va quindi dichiarato inammissibile con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
[OMISSIS] 

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