La coltivazione domestica della cannabis configura reato solo quando sia idonea a raggiungere la soglia minima di capacità drogante

Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, chiamate a dirimere un contrasto giurisprudenziale sorto in materia di coltivazione domestica di sostanze stupefacenti, hanno aderito all’indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in caso di coltivazione domestica di sostanza stupefacente del tipo cannabis, ai fini della punibilità, l’offensività della condotta consiste nella sua idoneità a produrre la sostanza per il consumo, sicché non rileva la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ma la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente, nell’obiettivo di scongiurare il rischio di diffusione futura della sostanza stupefacente.

“Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.
(Cass. SS. UU., 19 dicembre 2019 – 16 aprile 2020, n. 12348)

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