Nel caso di edilizia convenzionata, la condotta del costruttore che condiziona la conclusione o l’esecuzione del contratto alla dazione, da parte dell’acquirente inserito nelle apposite graduatorie, di somma maggiore di quella determinabile ai sensi della convenzione e non corrispondente a migliorie e varianti con lui concordate, integra il delitto di concussione.

 
Corte di Cassazione
Sez. VI, 14 aprile 2009, n. 15690
(ud. 25 marzo 2009)
Pres. Mannino – Est. Citterio – Ric. Spadavecchia
[OMISSIS]
Il soggetto che sia utilmente collocato in graduatoria si trova pertanto in una situazione giuridica soggettiva che lo legittima alla contrattazione ed all’acquisto, alle condizioni stabilite dalla convenzione; in caso contrario, la rinuncia dell’ente pubblico ai propri legittimi introiti e la predisposizione della graduatoria, con la verifica dei tiotoli di accesso, non avrebbero senso sistematico e normativo alcuno. Ed è proprio questo contesto che spiega l’acquisizione della qualifica di incaricato di pubblico servizio da parte del “costruttore in convenzione”: egli, accettando di vendere ad un determinato prezzo concordato con l’ente pubblico (essendo irrilevante come e quando si perviene alla quantificazione finale, rilevando solo che quella quantificazione non è liberamente determinata dal costruttore), concorre a consentire il perseguimento della finalità pubblica espressamente prevista e disciplinata da norma di legge.
La richiesta, da parte del costruttore di edilizia convenzionata, di somma ulteriore non corrisponde a lavori aggiuntivi e migliorie concordate con l’acquirente, è pertanti certamente illecita, e quando al suo accoglimento si condiziona l’esecuzione o anche la positiva conclusione del contratto con soggetto che abbia il titolo per contrarre, in ragione delle proprie condizioni economiche e di vita attestate dalla verfica pubblica, si realizza quella prevaricazione grazie all’abuso della propria posizione dominante che caratterizza il delitto di concussione (sez. VI, sent. 8907/2008, De Palma, citata; va richiamata anche sez. II, sente. 19711 del 23(04-16/05/2008, P.M. in proc. Sassi, che ha già affermato come in entrambi i casi, infatti, quel che rileva non è tanto l’esistenza di autodeterminazione dell’acquirente, posto nell’alternativa di far conseguire all’agente un profitto illecito o di rinunciare alla conclusione del contratto per effetto della volontà determinante dell’agente di conseguire un profitto vietato dall’ordinamento).
In altri termini, da un lato vi è un soggetto che svolge un incarico pubblico e gestisce – in ragione di tale incarico – la dazione di un bene assolutamente primario, come la casa, secondo le norme di legge. Dall’altro vi è un soggetto – la persona in graduatoria – che per definizione non ha la possibilità di ottenere la propria casa “adeguata” rivolgendosi al pubblico mercato. Si tratta di una relazione intersoggettiva all’evidenza squilibrata, in ragione del potere del primo e delle aspettative su bene primario del secondo, nella quale l’abuso di posizione del primo e la richiesta illecita di somme per legge non dovute, configurano quel concreto influsso sulla volontà della vittima della condotta – condizionandone la libertà morale – che caratterizza il delitto di concussione, anche a prescindere dal fatto che la vittima sia stata o meno effettivamente intimorita e/o indotta solo in forza del potere o della qualità (sez. VI, sent. 8907/2009, De Palama).
Come questa Corte ha infatti già affermato, “per l’integrazione del delitto di concussione non è necessario che l’abuso della qualità o dei poteri da parte del pubblico ufficiale determini uno stato soggettivo di timore per la vittima, ma è indispensabile che sussista una volontà prevaricatrice e condizionante in capo al pubblico ufficiale, che si estrinsechi in una condotta di costrizione o di induzione qualificata, ossia prodotta con l’abuso della qualità o dei poteri, la cui efficacia causativa della promessa o dazione indebita ben può affidarsi a comportamenti univoci per il contesto ambientale e che altrimenti risulterebbero penalmente insignificanti, sfruttando il riferimento alle regole “codificate” nel sistema di illegalità imperante nell’ambito di alcuni settori di attività della pubblica amministrazione” (sez. VI, sent. 23776 del 26 maggio – 7 luglio 2006, imp. Peluso ed altri).
Manifestamente illogico, a giudizio del collegio, è pertanto ritenere che se tale illecita richiesta, consentita dall’abuso dell’incarico pubblico acquisito, costituisce prassi diffusa e nota su un territorio, l’accettazione di tale richiesta vada considerata come manifestazione di libera scelta del singolo, quando non addirittura come forma di partecipazione dell’accettante al mercimonio dell’incarico pubblico per comune finalità truffaldina in danno dell’ente pubblico.
L’affermazione è – ancor più nella sua apparente assolutezza – manifestamente illogica, perché in primo luogo trascura del tutto proprio quella peculiare dinamica del rapporto tra chi “dà” casa convenzionata e chi “chiede” casa convenzionata non potendo rivolgersi al mercato libero, dinamica riconducibile a massima comune di esperienza;ma in secondo luogo, nel caso concreto, omette del tutto di considerare che – come risulta dalla sentenza di primo grado – lungi dal determinare un generale regime di corruzione o abuso per accordo illecito tra costruttori , la prassi delle illecite richieste aveva addirittura determinato il sorgere di un meritorio movimento che pubblicamente lamentava la costrizione cui erano soggetti coloro che intendevano accedere, avendone i titoli, all’edilizia convenzionata. Differentemente da quanto all’apparenza ritenuro dalla Corte distrettuale, infatti, proprio la diffusione di tali illecite richieste, e la loro “abituale” accettazione, configura la situazione di concussione ambientale, quella di un sistema di illegalità imperante nell’ambito di alcune sfere della pubblica amministrazione, quando la costrizione o l’induzione da parte del pubblico ufficiale può realizzarsi anche attraverso il riferimento a una sorta di convenzione tacitamente riconosciuta, che il pubblico ufficiale fa valere e il privato subisce, nel contesto di una comunicazione resa più semplice per il fatto di richiamarsi a regole già “codificate” (sez. VI, sent. 13395 del 13 luglio – 18 dicembre 1998, in proc. Salvi ed altri)
Né la Corte barese argomenta in alcun modo i presupposti di fatto che fonderebbero altrimenti, con specifico riferimento al caso concreto del Picca, un suo libero e sostanzialmente corruttivo inserimento nella prassi di pagamento, e in nero, del maggior prezzo, sicché anche tale affermazione, alla luce delle argomentazioni svolte, appare manifestamente illlogica
 
 

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.