La pena detentiva per il reato di diffamazione, commesso mediante utilizzazione di mezzi di comunicazione di massa, può essere applicabile solo nel caso in cui siano stati lesi anche altri diritti fondamentali come nel caso di discorsi d’odio o di incitazione alla violenza.
(Cass. Sez. 5^ Pen. – sentenza 17/02/21-14/04/2021, n. 13993)
La Corte di Cassazione, chiamata a decidere in merito ad una vicenda di diffamazione a mezzo facebook, ha stabilito che, pur allorquando il reato non sia stato commesso nell’esercizio dell’attività giornalistica, la pena detentiva può essere compatibile con la libertà di espressione, garantita dall’art. 10 CEDU, soltanto in circostanze eccezionali, ovverosia qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come ad esempio in caso di discorsi di odio o istigazione alla violenza. Per arrivare a tale conclusione, la Corte di Cassazione ha preso le mosse dalle pronunce della Corte EDU che hanno attribuito rilievo al c.d. chilling effect ovverosia l’effetto dissuasivo che l’applicazione di pene detentive può determinare sulla libertà di espressione della stampa, considerato il ruolo di watch-dog attribuito a quest’ultima. La Corte di Cassazione ha, inoltre, considerato che alcune pronunce CEDU sul tema hanno riguardato anche l’esercizio del diritto di critica negli scritti difensivi degli avvocati nei confronti delle decisioni della Magistratura.
In questi casi, vi sarebbe un rischio di chilling effect sulla professione forense in generale, nella difesa degli interessi dei clienti da parte degli avvocati.
Infine, la Corte di Cassazione ha preso in esame l’ordinanza 131 del 2020 con la quale la Corte Costituzionale ha evidenziato la necessità di una rimeditazione del bilanciamento tra la libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione che tenga conto dell’evoluzione della tecnologia e della diffusione degli addebiti diffamatori tramite social networks e motori di ricerca.
“Sotto il profilo costituzionale va rilevato che escludere la pena detentiva – riservandola ai c.d. discorsi d’odio – alle sole ipotesi di diffamazione commessa nell’esercizio dell’attività giornalistica, rischia, da un lato, di compromettere il principio di eguaglianza (art.3, comma 1, Cost.) nei confronti di tutti i cittadini (in particolare, coloro che commettano il fatto non nell’esercizio dell’attività giornalistica, e, dall’altro, il principio di ragionevolezza (art. 3, comma 2, Cost.), prevedendo un trattamento sanzionatorio sfavorevole (la pena detentiva) per fatti di solito connotati da minore gravità e/o diffusività, e dunque complessità offensiva, rispetto a quelli commessi nell’esercizio dell’attività giornalistica” .