E’ costituzionalmente illegittimo, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, l’art. 227 del codice penale militare di pace nella parte in cui non prevede l’applicabilità anche al delitto di diffamazione militare dell’art. 596, comma terzo, numeri 1) e 2), e comma quarto, c.p.
(Corte Costituzionale, 29 ottobre 2009, n. 273)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 227 del codice penale militare di pace promosso dal Tribunale militare di Napoli, nel procedimento penale militare a carico di C. C., con ordinanza del 29 maggio 2008, iscritta al n. 63 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 23 settembre 2009 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.
Ritenuto in fatto
1. – Con ordinanza emessa il 5 ottobre 2005 il Tribunale militare di Napoli – già Tribunale militare di Palermo – ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 227 del codice penale militare di pace nella parte in cui non prevede, per il delitto di diffamazione rientrante nella giurisdizione dei tribunali militari, la causa di non punibilità della prova liberatoria prevista dall’art. 596, terzo comma, numero 1), e quarto comma, del codice penale per il corrispondente delitto di diffamazione rientrante nella giurisdizione ordinaria.
Il rimettente premette in fatto che C. C. è stato tratto a giudizio per rispondere del reato di diffamazione aggravata in quanto avrebbe inviato a diverse autorità un esposto dal contenuto lesivo della reputazione del brigadiere dei carabinieri F. M., anche mediante l’attribuzione di fatti determinati.
Il Tribunale militare precisa di aver già sollevato, su eccezione della difesa dell’imputato, la medesima questione di legittimità costituzionale, dichiarata manifestamente inammissibile dalla Corte con ordinanza n. 49 del 2008, per insufficiente descrizione della fattispecie sotto il duplice profilo dell’omissione da parte del Tribunale della descrizione del caso concreto e della mancata indicazione di quale tra le tre ipotesi previste dall’art. 596, terzo comma, cod. pen. veniva a ricorrere nel caso di specie.
Alla ripresa del processo, la difesa dell’imputato ha nuovamente eccepito l’illegittimità dell’art. 227 cod. pen. mil. pace e il collegio ha sollevato nuovamente la questione descrivendo più dettagliatamente il fatto.
Il rimettente evidenzia, sulla base di quanto emerge dal capo d’imputazione e dai documenti prodotti dalle parti, che l’imputato, maresciallo capo dei carabinieri, in servizio presso la sezione anticrimine dei carabinieri di Monreale, con un esposto indirizzato a vari comandi dell’Arma e a varie Autorità giudiziarie, avrebbe offeso la reputazione del brigadiere dei carabinieri F. M. attribuendogli i seguenti fatti: di spendere con disinvoltura il nome di un sostituto procuratore generale di Caltanissetta; di lasciare l’auto di servizio incustodita sulla pubblica via; di occupare abusivamente un seminterrato grazie alla compiacenza di istituzioni locali; di mancare di riservatezza, così pregiudicando la sicurezza del sostituto procuratore e dei colleghi; di vivere indebitamente di luce riflessa senza far sapere di non avere più rapporti di lavoro con il magistrato; di utilizzare il nome di quest’ultimo come quello di garante inconsapevole di inqualificabili condotte e, infine, di godere della comprensione del comando provinciale dei carabinieri di Caltanissetta per le sue vicende personali.
Il Tribunale militare, compiuta una ricognizione dei dati normativi vigenti, afferma, in primo luogo, che l’art. 596 cod. pen., pur escludendo in via generale la prova liberatoria (primo comma), la ammette nelle limitate ipotesi contemplate nei commi secondo e terzo, prevedendo inoltre (quarto comma) che, una volta provata la verità del fatto, l’autore dell’imputazione non è più punibile. Osserva, inoltre, che tale causa di non punibilità è, invece, del tutto ignota al codice penale militare che non contiene alcuna norma analoga.
La prova liberatoria di cui all’art. 596 cod. pen. in origine non era presente nel codice del 1930, che si limitava a prevedere l’eventuale deferimento a un giurì d’onore del giudizio sulla verità del fatto. Solo con il decreto legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 288 (Provvedimenti relativi alla riforma della legislazione penale), venne introdotta la modifica dell’art. 596 cod. pen. nei termini tutt’oggi in vigore, senza però che fosse prevista, né allora né in epoca successiva, una corrispondente disciplina per le fattispecie militari.
In tal modo, il trattamento penalistico pressoché identico quanto alla morfologia complessiva delle due figure criminose di ingiuria e diffamazione, si diversifica profondamente in tema di cause di non punibilità, in quanto da un lato il codice penale comune risolve «in senso liberale la questione del valore da attribuire alla verità dell’addebito», mentre dall’altro il codice penale militare, nato nel 1941, continua a rispecchiare la sua matrice autoritaria, contraria ad ammettere la possibilità di provare la legittimità della pubblica censura ai comportamenti di determinati soggetti.
L’attuale disarmonia, a parere del collegio rimettente, «non appare comprensibile sotto il profilo della ragionevolezza, non essendo possibile individuare alcun valido motivo della perdurante sperequazione; e per ciò stesso appare ingiustificata ex art. 3 Cost., poiché finisce per trattare la posizione dei militari imputati di ingiuria e diffamazione in modo pesantemente diverso da quello previsto per i non appartenenti alle forze armate imputati di illeciti del tutto analoghi».
Il Tribunale militare evidenzia che il caso sottoposto al suo giudizio rientrerebbe nell’ipotesi contemplata dall’art. 596, terzo comma, numero 1), cod. pen. perché la persona offesa è un pubblico ufficiale e i fatti a lui attribuiti si riferiscono all’esercizio delle sue funzioni.
Quanto alla rilevanza, il Tribunale militare di Napoli asserisce che è appena il caso di rilevare che l’esito del procedimento sarebbe ben diverso se si ammettesse o si negasse la possibilità della prova liberatoria: poiché in un caso si potrebbe pervenire a una pronuncia favorevole all’imputato nei termini previsti dall’art. 596, quarto comma, cod. pen. e, nell’altro, ad una soluzione di segno contrario.
2. – È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di costituzionalità venga dichiarata inammissibile o infondata.
L’eccezione di inammissibilità si fonda sull’insufficiente descrizione della fattispecie, perché il Tribunale militare avrebbe omesso di precisare se l’imputato, nell’esercizio del suo diritto di difesa, abbia chiesto o meno di essere ammesso a provare la verità dei fatti attribuiti alla persona offesa dal reato per il quale si procede.
In via subordinata, l’Avvocatura dello Stato evidenzia l’infondatezza della questione di costituzionalità perché fondata su di una disparità di trattamento di situazioni che invece non possono essere equiparate, stante la peculiarità degli interessi tutelati dal diritto penale militare.
Considerato in diritto
1. – Il Tribunale militare di Napoli – già Tribunale militare di Palermo – ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 227 del codice penale militare di pace nella parte in cui non prevede, per il delitto di diffamazione rientrante nella giurisdizione dei tribunali militari, la causa di non punibilità della prova liberatoria prevista dall’art. 596, terzo comma, numero 1), e quarto comma, del codice penale per il corrispondente delitto di diffamazione rientrante nella giurisdizione ordinaria.
Secondo il rimettente, l’esclusione della prova liberatoria per il delitto di diffamazione militare è in contrasto con il principio di ragionevolezza, in quanto non vi è alcuna ragione giustificatrice della disparità di trattamento dei militari imputati di ingiuria e diffamazione rispetto ai non appartenenti alle forze armate imputati di illeciti del tutto analoghi.
2. – Preliminarmente, deve esaminarsi l’eccezione dell’Avvocatura dello Stato di inammissibilità della questione perché nell’ordinanza di rimessione il collegio non ha specificato se l’imputato del giudizio a quo ha chiesto di essere ammesso a provare la verità dei fatti attribuiti alla persona offesa.
L’eccezione deve essere respinta, in quanto il rimettente chiarisce che è la stessa difesa dell’imputato ad aver reiteratamente chiesto al collegio di sollevare la questione di costituzionalità dell’art. 227 cod. pen. mil. pace, ciò allo scopo evidente di rimuovere l’ostacolo giuridico alla ammissibilità delle prove circa la verità dei fatti oggetto dell’imputazione di diffamazione militare.
3. – La questione è fondata.
4. – Questa Corte ha da tempo chiarito che la diversità di disciplina tra ordinamento penale comune e militare può rilevare in termini di violazione del principio di eguaglianza solo ove sia dato riscontrare una assoluta identità tra il reato comune e quello militare, sul terreno sia della condotta tipica, sia dell’oggettività giuridica del reato (si vedano, ex plurimis, le sentenze n. 272 del 1997 e n. 448 del 1991) e che i reati militari sono connotati, quale loro peculiare ed intrinseca caratteristica, da «un’offesa alla disciplina e al servizio» cui corrisponde l’interesse generale di garantire l’efficienza e la coesione delle forze armate.
Le due fattispecie di diffamazione previste, rispettivamente, dall’art. 595 cod. pen. e dall’art. 227 cod. pen. mil. pace sono già state oggetto di una questione di costituzionalità, prospettata in relazione alla violazione del principio di uguaglianza determinata dalla differente disciplina della condizione di procedibilità.
In tale occasione, la Corte ha ritenuto legittima l’esclusione della procedibilità a querela della persona offesa per il delitto di diffamazione militare e la sua esclusiva subordinazione alla richiesta del comandante di corpo prevista dall’art. 260 cod. pen. mil. pace, affermando che «nei reati militari [è] sempre insita “un’offesa alla disciplina e al servizio, una lesione quindi di un interesse eminentemente pubblico che non tollera subordinazione all’interesse privato caratteristico della querela”: presupposto sulla base del quale “si è preferito attribuire al comandante del corpo, con l’istituto della richiesta” una facoltà di scelta tra l’adozione di provvedimenti di natura disciplinare ed il ricorso all’ordinaria azione penale» (ordinanza n. 410 del 2000, nella quale si citano le sentenze n. 449 del 1991 e n. 42 del 1975, nonché l’ordinanza n. 229 del 1988).
Si è quindi esclusa la violazione del principio di uguaglianza, giustificando la diversità di trattamento nella peculiarità della situazione propria del cittadino inserito nell’ordinamento militare – alle cui specifiche regole egli è vincolato – rispetto a quella della generalità degli altri cittadini e ponendo l’accento ancora una volta sulla lesione del bene giuridico della disciplina e del servizio che, rispondendo a interessi di tipo pubblicistico, non tollera subordinazione all’interesse privato.
Nell’esaminare la presente questione deve rilevarsi che, salvo per l’aspetto, sopra evidenziato, dell’immanenza in tutti i reati militari della tutela «di un interesse eminentemente pubblico» quale quello della disciplina e del servizio, le due fattispecie poste a raffronto, diffamazione militare (art. 227 cod. pen. mil. pace) e diffamazione “comune” (art. 595 cod. pen.), presentano una piena equivalenza sul terreno sia della condotta tipica, sia dell’oggettività giuridica del reato. La diffamazione militare si pone in rapporto di specialità con il corrispondente delitto previsto dal codice penale, distinguendosi unicamente per la qualità del soggetto attivo e della persona offesa, che devono essere entrambi militari, restando invece identica, sotto il profilo testuale, la descrizione della fattispecie base delle due norme incriminatrici, vale a dire l’offesa della altrui reputazione nella comunicazione con più persone.
Anche le ipotesi aggravate, previste rispettivamente dall’art. 595, secondo, terzo e quarto comma, cod. pen. e dall’art. 227, secondo e terzo comma, cod. pen. mil. pace, sono sostanzialmente corrispondenti. In entrambi i casi è previsto un aggravamento della pena nell’ipotesi dell’attribuzione del fatto determinato e dell’offesa recata a mezzo stampa, con altro mezzo di pubblicità o in atto pubblico. Infine, a fronte della previsione dell’aggravante rappresentata dall’offesa recata ad un corpo politico amministrativo o giudiziario per il delitto comune, nell’ipotesi speciale è contemplata la corrispondente aggravante dell’offesa recata a un corpo militare ovvero a un ente amministrativo o giudiziario militare, coerentemente con la specificità della diffamazione militare.
Se, dunque, l’unica ratio giustificativa della diversa disciplina tra le due ipotesi delittuose in tema di condizione di procedibilità è l’interesse di tipo pubblicistico della tutela della disciplina e del servizio, mancano ulteriori apprezzabili ragioni che possano giustificare il diverso trattamento ai fini dell’applicazione della causa di non punibilità della cosiddetta exceptio veritatis. Il presupposto, infatti, per l’applicabilità della prova liberatoria di cui all’art. 596, terzo comma, numero 1), cod. pen. è che la persona offesa sia un pubblico ufficiale e che il fatto ad esso attribuito si riferisca all’esercizio delle sue funzioni. È evidente che viene in rilievo un interesse pubblico all’accertamento del fatto che non può che determinare l’estensione di tale strumento probatorio anche a quanto previsto dall’art. 227 cod. pen. mil. pace.
Nel caso in esame, pertanto, all’estensione dell’applicabilità della prova liberatoria prevista dall’art. 596, terzo comma, numero 1), cod. pen. alla diffamazione militare non ostano le ragioni che, in occasione dell’ordinanza n. 410 del 2000 hanno precluso l’accoglimento della questione allora sollevata. Del resto, proprio con riferimento a quanto affermato in tale decisione, la tutela delle specifiche esigenze dell’ordinamento militare è sufficientemente assicurata dal diverso sistema di attivazione dell’azione penale.
Sulla base di tali considerazioni, si impone la dichiarazione di illegittimità costituzionale, per contrasto con il principio di uguaglianza, dell’art. 227 cod. pen. mil. pace, nella parte in cui non prevede l’applicabilità anche al delitto di diffamazione militare dell’art. 596, terzo comma, numero 1), e quarto comma, del codice penale.
Per le medesime ragioni la pronuncia di illegittimità costituzionale deve essere estesa, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, anche con riguardo all’applicabilità dell’art. 596, terzo comma, numero 2), cod. pen. che, allo stesso modo, prevede la prova liberatoria quando per il fatto attribuito alla persona offesa vi sia nei suoi confronti un procedimento penale.
Resta esclusa l’ipotesi di cui al numero 3) del terzo comma dell’art. 596 cod. pen, relativa alla richiesta formale del querelante di estendere il giudizio all’accertamento della verità o della falsità del fatto ad esso attribuito. Tale ultima disposizione, infatti, si riferisce alla figura del querelante e, pertanto, la sua applicazione non può estendersi alla fattispecie di diffamazione militare dato che, come si è visto, l’ordinamento penale militare non conosce l’istituto della querela.
P.Q.M.
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 227 del codice penale militare di pace nella parte in cui non prevede l’applicabilità anche al delitto di diffamazione militare dell’art. 596, terzo comma, numero 1), e quarto comma, del codice penale;
dichiara ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 227 del codice penale militare di pace nella parte in cui non prevede l’applicabilità anche al delitto di diffamazione militare dell’art. 596, terzo comma, numero 2), e quarto comma, del codice penale.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 ottobre 2009.