(Corte Costituzionale, sentenza 19 giugno – 9 luglio 2013, n. 183)
[OMISSIS]Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza depositata il 26 ottobre 2012, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Velletri ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 111, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 34 e 623, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedono l’incompatibilità a partecipare al giudizio di rinvio del giudice che, quale giudice dell’esecuzione, abbia pronunciato ordinanza di accoglimento o di rigetto della richiesta di applicazione della disciplina del reato continuato, annullata dalla Corte di cassazione.
Il rimettente riferisce di avere rigettato, con ordinanza del 18 maggio 2011, in veste di giudice dell’esecuzione, la richiesta di un condannato intesa ad ottenere, ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen., l’applicazione della disciplina della continuazione in rapporto a due reati di rapina aggravata, commessi in concorso con altra persona e giudicati separatamente. La decisione era basata sulla ritenuta impossibilità di ricondurre i due episodi delittuosi ad un medesimo disegno criminoso, trattandosi di fatti commessi in giorni diversi, in danno di differenti istituti di credito e in diverse località.
Il provvedimento era stato annullato con rinvio dalla Corte di cassazione, per incompletezza della motivazione in ordine allo stato di tossicodipendenza del ricorrente: condizione non menzionata nell’ordinanza impugnata e che doveva essere presa invece in considerazione alla luce del disposto del comma 1 dell’art. 671 cod. proc. pen., in forza del quale «fra gli elementi che incidono sull’applicazione del reato continuato vi è la consumazione di più reati in relazione allo stato di tossicodipendenza». Gli atti erano stati quindi rinviati allo stesso Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Velletri, affinché esaminasse «in piena autonomia di giudizio» l’istanza del condannato, colmando le lacune motivazionali.
Ritenendo di trovarsi in situazione di incompatibilità, il giudice a quo aveva rimesso gli atti al magistrato designato per tale evenienza, sulla base delle tabelle giudiziarie. Il magistrato coordinatore della sezione, tuttavia, aveva nuovamente assegnato il procedimento al rimettente, rilevando come la Corte di cassazione avesse chiarito che è legittima l’ordinanza emessa, in sede di giudizio di rinvio, dallo stesso giudice autore del provvedimento annullato, in quanto la diversità della persona fisica del giudice chiamato a decidere dopo l’annullamento con rinvio è imposta dall’art. 623, comma 1, lettera d), cod. proc. pen. solo con riferimento alle sentenze.
Tanto premesso, il giudice a quo osserva come, se dovesse pronunciarsi nuovamente sull’istanza del condannato, tornerebbe a respingerla, essendo – a suo avviso – l’art. 671 cod. proc. pen. comunque inapplicabile nel caso in esame. Secondo quanto emerge dalla sentenza di condanna relativa alla prima delle due rapine, infatti, l’istante ha dichiarato di essersi determinato a commettere il reato in quanto aveva contratto debiti con spacciatori di sostanze stupefacenti. Tale dichiarazione – priva peraltro di elementi di riscontro – non varrebbe a rendere operante la previsione normativa considerata, la quale riconosce la possibilità di configurare l’identità del disegno criminoso solo in relazione allo stato di tossicodipendenza del condannato, e non alle sue esposizioni debitorie. L’esistenza della condizione di tossicodipendenza non sarebbe, d’altra parte, desumibile dalla documentazione prodotta a sostegno dell’istanza, dalla quale risulta che l’interessato è stato «pres[o] in carico» dal servizio per le tossicodipendenze solo alcuni mesi dopo la commissione delle rapine.
Recependo l’eccezione formulata dal difensore, il rimettente reputa, tuttavia, pregiudiziale rispetto alla pronuncia sul merito dell’istanza la questione di legittimità costituzionale degli artt. 34 e 623, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedono l’incompatibilità a partecipare al giudizio di rinvio del giudice che, quale giudice dell’esecuzione, abbia pronunciato ordinanza – annullata dalla Corte di cassazione – di accoglimento o di rigetto della richiesta di applicazione della continuazione.
Al riguardo, il giudice a quo rileva come la giurisprudenza di legittimità abbia ritenuto che, nel caso di annullamento di provvedimenti de libertate, il giudice del rinvio possa identificarsi in quello stesso che ha emesso l’ordinanza annullata, giacché, in tale ipotesi, il giudice non si pronuncia sul merito dell’imputazione e non esprime, così, quel «giudizio» che l’art. 34 cod. proc. pen. individua come secondo termine della relazione di incompatibilità.
Nella specie, per converso, esso giudice rimettente, rigettando l’istanza originaria, avrebbe già espresso – sia pure con la forma dell’ordinanza e non della sentenza – un giudizio di merito, avente ad oggetto il disconoscimento dell’esistenza di una medesima risoluzione criminosa al di sotto dei due episodi delittuosi: valutazione che postulerebbe un esame «non secondario» delle modalità e delle circostanze delle singole condotte.
La mancata previsione dell’incompatibilità nel caso considerato risulterebbe, pertanto, lesiva dell’art. 111, secondo comma, Cost., in forza del quale il giudice deve essere terzo e imparziale, non apparendo tale quel giudice che, dopo essersi pronunciato su una questione esprimendo un giudizio di merito, venga nuovamente chiamato a decidere la medesima questione, sia pure al fine di integrare la motivazione.
Sarebbe violato, altresì, l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’ingiustificata disparità di trattamento tra le fasi della cognizione e dell’esecuzione. Nell’ipotesi in cui il giudice abbia deciso con sentenza in sede cognitiva, l’annullamento con rinvio della sua decisione comporta, infatti, ai sensi dell’art. 623 cod. proc. pen., l’impossibilità per quel giudice di pronunciare nuovamente sulla vicenda. Se l’identico giudizio è invece espresso – come nella specie – in fase di esecuzione, e dunque mediante ordinanza (art. 666, comma 6, cod. proc. pen.), l’ulteriore pronuncia del medesimo giudice sulla stessa questione non è invece preclusa.
2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.
Ad avviso della difesa dello Stato, la questione sarebbe inammissibile sia per l’insufficienza della motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza, sia per la mancata verifica, da parte del giudice rimettente, della possibilità di una interpretazione costituzionalmente orientata nella normativa censurata.
Nel merito, la questione sarebbe comunque infondata. Al riguardo, l’Avvocatura dello Stato rileva come la giurisprudenza di legittimità sia costante nel ritenere che, nell’ipotesi di annullamento con rinvio al tribunale del riesame, non sussiste alcuna incompatibilità a partecipare al giudizio di rinvio nei confronti dei magistrati che hanno adottato la decisione annullata, tenuto conto sia della mancanza di indicazioni in tal senso nell’art. 623 cod. proc. pen. – ove anzi si prevede, nel caso di annullamento di un’ordinanza, il rinvio allo stesso giudice che ha emesso il provvedimento – sia della natura incidentale del giudizio de libertate.
Considerato in diritto
1.– Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Velletri dubita della legittimità costituzionale degli articoli 34 e 623, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedono l’incompatibilità a partecipare al giudizio di rinvio del giudice che, quale giudice dell’esecuzione, abbia pronunciato ordinanza di accoglimento o di rigetto della richiesta di applicazione della disciplina del reato continuato, annullata dalla Corte di cassazione.
Le norme censurate violerebbero, in parte qua, l’art. 111, secondo comma, della Costituzione, in forza del quale il giudice deve essere terzo e imparziale, non apparendo tale il giudice che, dopo essersi pronunciato su una questione esprimendo un giudizio di merito – quale quello inerente alla riconducibilità di distinti fatti di reato a un unico disegno criminoso – venga nuovamente chiamato a decidere la medesima questione.
Sarebbe leso, altresì, l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’ingiustificata disparità di trattamento tra le fasi della cognizione e dell’esecuzione, posto che, nell’ipotesi in cui il giudice abbia deciso con sentenza in fase cognitiva, l’annullamento con rinvio della sua decisione comporta, ai sensi dell’art. 623 cod. proc. pen., l’impossibilità per quel giudice di pronunciare nuovamente sulla vicenda, mentre ciò non avviene se il medesimo giudizio è espresso in sede esecutiva, e dunque mediante ordinanza.
2.– In via preliminare, va disattesa l’eccezione dell’Avvocatura dello Stato di inammissibilità della questione per insufficienza della motivazione sulla non manifesta infondatezza.
Il giudice rimettente ha esposto, infatti, in modo compiuto e adeguato le ragioni del ritenuto contrasto delle norme denunciate con i parametri costituzionali evocati, nei termini che si sono poc’anzi riassunti.
3.– Parimenti infondata è l’ulteriore eccezione della difesa dello Stato – prospettata, peraltro, anch’essa in termini meramente assertivi – di inammissibilità della questione per omessa sperimentazione di un’interpretazione costituzionalmente orientata.
Alla stregua di quanto si osserverà subito appresso, la premessa ermeneutica che fonda il quesito di costituzionalità – stando alla quale le norme censurate non prevedono l’incompatibilità del giudice nel caso considerato – appare, infatti, oggettivamente conforme al dato normativo e comunque rispondente al corrente orientamento della giurisprudenza di legittimità, così da poter essere assunta quale “diritto vivente”.
4.– Nel merito, la questione è fondata.
Il tema sottoposto all’esame della Corte attiene segnatamente ai limiti di operatività della incompatibilità cosiddetta “verticale”.
In proposito, giova premettere che, per reiterata affermazione di questa Corte, le norme sull’incompatibilità del giudice determinata da atti compiuti nel procedimento, di cui all’art. 34 cod. proc. pen., presidiano i valori della sua terzietà e imparzialità, attualmente oggetto di espressa previsione nel secondo comma dell’art. 111 Cost., aggiunto dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione), ma già in precedenza pacificamente insiti nel sistema costituzionale. Le predette norme risultano volte, in particolare, ad evitare che la decisione sul merito della causa possa essere o apparire condizionata dalla “forza della prevenzione” – ossia dalla naturale tendenza a confermare una decisione già presa o a mantenere un atteggiamento già assunto – scaturente da valutazioni cui il giudice sia stato precedentemente chiamato in ordine alla medesima res iudicanda (ex plurimis, sentenze n. 153 del 2012, n. 177 del 2010 e n. 224 del 2001).
In questa prospettiva, il comma 1 dell’art. 34 cod. proc. pen. si occupa, in via prioritaria, delle ipotesi di incompatibilità conseguenti alla progressione “in verticale” del processo, determinata dalla articolazione e dalla sequenzialità dei diversi gradi di giudizio. Si tratta di un tipo di incompatibilità che salvaguarda la stessa effettività del sistema delle impugnazioni, le quali rinvengono, in linea generale, la loro ratio di garanzia nell’alterità tra il giudice che ha emesso la decisione impugnata e quello chiamato a riesaminarla.
In linea con la tradizione storica, la citata disposizione prevede l’incompatibilità verticale non solo in senso “ascendente”, ma anche in senso “discendente”: con riguardo, cioè, al giudizio di rinvio dopo l’annullamento. L’evidenziato effetto di condizionamento, derivante dalla “forza della prevenzione”, è ravvisabile, infatti, anche nell’ambito del giudizio in questione, trattandosi di una nuova fase del processo di merito, destinata in parte a rinnovare le attività poste nel nulla per effetto della sentenza di cassazione, in parte ad aggiungere ulteriori attività a quelle annullate.
Il comma 1 dell’art. 34 cod. proc. pen. limita, tuttavia, l’incompatibilità “verticale” – sia essa “ascendente” o “discendente” – al giudice che, in un grado del procedimento, abbia pronunciato o concorso a pronunciare «sentenza»: con ciò escludendo, a contrario, che l’incompatibilità scatti a fronte dell’avvenuta pronuncia di provvedimenti di altro tipo, e segnatamente di ordinanze. Si tratta di soluzione espressiva, in linea generale, dell’intento di conservare, da un lato, l’unità di giudizio all’interno del grado, che sarebbe inopportuno frammentare, e di evitare, dall’altro, una eccessiva dilatazione dell’area dell’incompatibilità.
Con specifico riferimento all’incompatibilità a partecipare al giudizio di rinvio, la previsione dell’art. 34, comma 1, cod. proc. pen. viene, peraltro, a saldarsi con le disposizioni dell’art. 623 cod. proc. pen., che individuano il giudice competente a pronunciare dopo l’annullamento da parte della Corte di cassazione. L’insussistenza dell’incompatibilità nel caso di annullamento di un’ordinanza trova, per questo verso, specifica conferma. Il citato art. 623 prende, infatti, espressamente in considerazione l’esigenza di evitare la coincidenza soggettiva tra giudice del rinvio e giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato solo con riguardo alle sentenze (lettera d): mentre, nel caso di annullamento di un’ordinanza, si limita puramente e semplicemente a stabilire che gli atti debbano essere trasmessi «al giudice che l’ha pronunciata» (lettera a).
Alla luce di tale dato normativo la giurisprudenza di legittimità ha, quindi, reiteratamente affermato che in sede di rinvio può provvedere lo stesso giudice-persona fisica che ha pronunciato l’ordinanza annullata. Tale principio è stato enunciato, in particolare, con riguardo all’ipotesi dell’annullamento con rinvio di ordinanze in materia di misure cautelari personali, corroborandolo con considerazioni attinenti alla natura delle valutazioni cui il giudice è in quel caso chiamato. Ma a conclusioni analoghe la Corte di cassazione è pervenuta anche in relazione a un complesso di altre fattispecie, tra cui l’annullamento con rinvio di provvedimenti del giudice dell’esecuzione – i quali assumono tipicamente la forma dell’ordinanza, ai sensi dell’art. 666, comma 6, cod. proc. pen. – ivi compresi quelli che qui specificamente interessano, ossia le ordinanze attinenti a richieste di applicazione della continuazione in executivis (si veda, in particolare, Cass., 19 dicembre 2007-15 gennaio 2008, n. 2098).
5.– La mancata previsione dell’incompatibilità in tale ultima ipotesi confligge, tuttavia, con entrambi i parametri evocati dal giudice rimettente, determinando una incongruenza interna tra la ratio dell’art. 671 cod. proc. pen. e i suoi effetti.
Recando, per corrente notazione, una delle novità più rilevanti del vigente codice di rito in punto di oggetto della competenza del giudice dell’esecuzione, la disposizione in parola abilita quest’ultimo ad applicare, su richiesta del condannato o del pubblico ministero, la disciplina del concorso formale e del reato continuato in relazione ai fatti giudicati con più sentenze o decreti penali irrevocabili, pronunciati in procedimenti distinti contro la stessa persona.
La previsione trova la sua ratio “storica” nell’esigenza di compensare, su un diverso versante, il favor separationis che ispira il sistema processuale di tipo accusatorio. La drastica riduzione dei casi di connessione tra procedimenti – cui rimaneva originariamente estranea l’ipotesi del reato continuato – rendeva, infatti, particolarmente acuta la necessità introdurre strumenti atti ad evitare l’irrimediabile perdita dei vantaggi derivanti dalla continuazione (cumulo giuridico delle pene) da parte dell’imputato che, in quanto giudicato separatamente (anziché cumulativamente) per i singoli episodi criminosi, si fosse vista preclusa la possibilità di una valutazione globale della sua posizione in sede cognitiva, con evidente pregiudizio di posizioni costituzionalmente presidiate, a cominciare dal principio di eguaglianza (art. 3 Cost.).
Il mutamento di indirizzo legislativo registratosi al principio degli anni ’90 – che ha portato all’inserimento della continuazione tra i casi di connessione (art. 12, comma 1, lettera b, cod. proc. pen., come modificato dal decreto-legge 20 novembre 1991, n. 367, recante «Coordinamento delle indagini nei procedimenti per reati di criminalità organizzata», convertito, con modificazioni, nella legge 20 gennaio 1992, n. 8) – si è limitato a ridurre il campo operativo della norma, ma non ne ha appannato né la ratio, né l’utilità pratica. L’applicabilità della continuazione in sede esecutiva consente tuttora di evitare irragionevoli sperequazioni dovute a fattori meramente casuali, per effetto dei quali i reati in continuazione (o in concorso formale) siano stati giudicati nell’ambito di processi distinti, anziché in un unico processo cumulativo (ordinanza n. 43 del 2013).
Ma se l’esigenza di ripristinare l’eguaglianza vale in rapporto alla determinazione del trattamento sanzionatorio (applicazione del cumulo giuridico delle pene, in luogo del cumulo materiale), essa non può non valere anche in relazione all’applicazione della disciplina sull’incompatibilità del giudice, posta a presidio della sua imparzialità.
Come denuncia l’odierno rimettente, se è il giudice della cognizione a negare l’identità del disegno criminoso, l’annullamento su questo punto della sua sentenza lo rende incompatibile a partecipare al giudizio di rinvio, ai sensi dell’art. 34, comma 1, cod. proc. pen. Se l’identica valutazione è operata dal giudice dell’esecuzione, ciò viceversa non avviene.
6.– Nella verifica della ragionevolezza di un simile regime differenziato, non si possono, d’altra parte, non considerare le eccezionali caratteristiche dell’intervento del giudice dell’esecuzione nel caso in esame (ordinanza n. 43 del 2013).
La soluzione offerta dal legislatore al problema del ripristino dell’eguaglianza – quella, appunto, di demandare al giudice dell’esecuzione la “sintesi” delle condotte giudicate separatamente, determinandone le conseguenze ai sensi dell’art. 81 del codice penale – comporta una evidente “frattura” dell’ordinario discrimen tra fase cognitiva e fase esecutiva, sotto un duplice profilo.
Da un lato, infatti, il giudice dell’esecuzione si vede investito di un accertamento che non attiene affatto all’esecuzione (sia pure lato sensu intesa) delle pronunce di condanna delle quali si discute, quanto piuttosto al merito delle imputazioni. Al riguardo, si è icasticamente parlato di un frammento di cognizione inserito nella fase di esecuzione penale. La verifica della sussistenza di un medesimo disegno criminoso – l’accertamento, cioè, che l’interessato, prima di dare inizio alla serie criminosa, abbia avuto una rappresentazione, almeno sommaria, dei reati che si accingeva a commettere e che detti reati siano stati ispirati ad una finalità unitaria – implica, in effetti, valutazioni tecnico-giuridiche attinenti al fatto, tanto sul piano teorico che su quello operativo, avuto riguardo al materiale probatorio da scrutinare.
Dall’altro lato, la soluzione normativa in discorso comporta l’apertura di una evidente breccia nel principio di intangibilità del giudicato. All’esito del riconoscimento della continuazione (o del concorso formale), il giudice dell’esecuzione si trova, infatti, abilitato a modificare il trattamento sanzionatorio inflitto in sede cognitiva: non solo, e anzitutto, riducendo le pene principali, ma anche, eventualmente, eliminando o riducendo pene accessorie e misure di sicurezza o altri effetti penali della condanna (sono i provvedimenti consequenziali cui si riferisce il comma 3 dell’art. 671 cod. proc. pen.). Lo stesso comma 3 dell’art. 671 riconosce, altresì, espressamente al giudice dell’esecuzione il potere di concedere la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando ciò derivi dal riconoscimento della continuazione (o del concorso formale).
L’apprezzamento demandato al giudice dell’esecuzione presenta, dunque, tutte le caratteristiche del «giudizio», quali delineate dalla giurisprudenza di questa Corte ai fini dell’identificazione del secondo termine della relazione di incompatibilità costituzionalmente rilevante, espressivo della sede “pregiudicata” dall’effetto di “condizionamento” scaturente dall’avvenuta adozione di una precedente decisione sulla medesima res iudicanda. Tale è, infatti, il «“giudizio” contenutisticamente inteso, e cioè […] ogni sequenza procedimentale – anche diversa dal giudizio dibattimentale – la quale, collocandosi in una fase diversa da quella in cui si è svolta l’attività “pregiudicante”, implichi una valutazione sul merito dell’accusa, e non determinazioni incidenti sul semplice svolgimento del processo, ancorché adottate sulla base di un apprezzamento delle risultanze processuali» (sentenza n. 224 del 2001): in altre parole e più in breve, è pregiudicante «qualsiasi tipo di giudizio, […] che in base a un esame delle prove pervenga a una decisione di merito» (sentenza n. 131 del 1996). Tratti, questi, senz’altro riscontrabili – per quanto detto – nella decisione assunta dal giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen.
7.– Gli artt. 34, comma 1, e 623, comma 1, lettera a), cod. proc. pen. vanno dichiarati, pertanto, costituzionalmente illegittimi, nella parte in cui non prevedono che non possa partecipare al giudizio di rinvio dopo l’annullamento il giudice che ha pronunciato o concorso a pronunciare ordinanza di accoglimento o rigetto della richiesta di applicazione in sede esecutiva della disciplina del reato continuato, ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen.
La dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa, in via consequenziale, all’ipotesi dell’annullamento con rinvio dell’ordinanza che si pronunci sulla richiesta di applicazione in sede esecutiva della disciplina del concorso formale: fattispecie regolata congiuntamente a quella oggetto del quesito dallo stesso art. 671 cod. proc. pen. e in rapporto alla quale valgono le stesse considerazioni.
per questi motivi
1) dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 34, comma 1, e 623, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedono che non possa partecipare al giudizio di rinvio dopo l’annullamento il giudice che ha pronunciato o concorso a pronunciare ordinanza di accoglimento o rigetto della richiesta di applicazione in sede esecutiva della disciplina del reato continuato, ai sensi dell’art. 671 del medesimo codice;
2) dichiara, in applicazione dell’articolo 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dei medesimi articoli 34, comma 1, e 623, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedono che non possa partecipare al giudizio di rinvio dopo l’annullamento il giudice che ha pronunciato o concorso a pronunciare ordinanza di accoglimento o rigetto della richiesta di applicazione in sede esecutiva della disciplina del concorso formale, ai sensi dell’art. 671 dello stesso codice.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 luglio 2013.