Esecuzione: incompatibilità nel giudizio di rinvio
In applicazione dell’articolo 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, sono costituzionalmente illegittimi gli articoli 34, comma 1, e 623, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedono che non possa partecipare al giudizio di rinvio dopo l’annullamento il giudice che ha pronunciato o concorso a pronunciare ordinanza di accoglimento o rigetto della richiesta di applicazione in sede esecutiva della disciplina del concorso formale, ai sensi dell’art. 671 dello stesso codice.
(Corte Costituzionale, sentenza 9 luglio 2013, n.183)
composta dai signori:
– Franco GALLO Presidente
– Luigi MAZZELLA Giudice
– Gaetano SILVESTRI “
– Sabino CASSESE “
– Giuseppe TESAURO “
– Paolo Maria NAPOLITANO “
– Giuseppe FRIGO “
– Alessandro CRISCUOLO “
– Paolo GROSSI “
– Giorgio LATTANZI “
– Marta CARTABIA “
– Sergio MATTARELLA “
– Mario Rosario MORELLI “
– Giancarlo CORAGGIO “
ha pronunciato la seguente
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 19 giugno 2013 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Recependo l’eccezione formulata dal difensore, il rimettente reputa, tuttavia, pregiudiziale rispetto alla pronuncia sul merito dell’istanza la questione di legittimità costituzionale degli artt. 34 e 623, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedono l’incompatibilità a partecipare al giudizio di rinvio del giudice che, quale giudice dell’esecuzione, abbia pronunciato ordinanza – annullata dalla Corte di cassazione – di accoglimento o di rigetto della richiesta di applicazione della continuazione.
Al riguardo, il giudice a quo rileva come la giurisprudenza di legittimità abbia ritenuto che, nel caso di annullamento di provvedimenti de libertate, il giudice del rinvio possa identificarsi in quello stesso che ha emesso l’ordinanza annullata, giacché, in tale ipotesi, il giudice non si pronuncia sul merito dell’imputazione e non esprime, così, quel «giudizio» che l’art. 34 cod. proc. pen. individua come secondo termine della relazione di incompatibilità.
Nella specie, per converso, esso giudice rimettente, rigettando l’istanza originaria, avrebbe già espresso – sia pure con la forma dell’ordinanza e non della sentenza – un giudizio di merito, avente ad oggetto il disconoscimento dell’esistenza di una medesima risoluzione criminosa al di sotto dei due episodi delittuosi: valutazione che postulerebbe un esame «non secondario» delle modalità e delle circostanze delle singole condotte.
La mancata previsione dell’incompatibilità nel caso considerato risulterebbe, pertanto, lesiva dell’art. 111, secondo comma, Cost., in forza del quale il giudice deve essere terzo e imparziale, non apparendo tale quel giudice che, dopo essersi pronunciato su una questione esprimendo un giudizio di merito, venga nuovamente chiamato a decidere la medesima questione, sia pure al fine di integrare la motivazione.
Sarebbe violato, altresì, l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’ingiustificata disparità di trattamento tra le fasi della cognizione e dell’esecuzione. Nell’ipotesi in cui il giudice abbia deciso con sentenza in sede cognitiva, l’annullamento con rinvio della sua decisione comporta, infatti, ai sensi dell’art. 623 cod. proc. pen., l’impossibilità per quel giudice di pronunciare nuovamente sulla vicenda. Se l’identico giudizio è invece espresso – come nella specie – in fase di esecuzione, e dunque mediante ordinanza (art. 666, comma 6, cod. proc. pen.), l’ulteriore pronuncia del medesimo giudice sulla stessa questione non è invece preclusa.
2.- È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.
Ad avviso della difesa dello Stato, la questione sarebbe inammissibile sia per l’insufficienza della motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza, sia per la mancata verifica, da parte del giudice rimettente, della possibilità di una interpretazione costituzionalmente orientata nella normativa censurata.
Nel merito, la questione sarebbe comunque infondata. Al riguardo, l’Avvocatura dello Stato rileva come la giurisprudenza di legittimità sia costante nel ritenere che, nell’ipotesi di annullamento con rinvio al tribunale del riesame, non sussiste alcuna incompatibilità a partecipare al giudizio di rinvio nei confronti dei magistrati che hanno adottato la decisione annullata, tenuto conto sia della mancanza di indicazioni in tal senso nell’art. 623 cod. proc. pen. – ove anzi si prevede, nel caso di annullamento di un’ordinanza, il rinvio allo stesso giudice che ha emesso il provvedimento – sia della natura incidentale del giudizio de libertate.
1.- Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Velletri dubita della legittimità costituzionale degli articoli 34 e 623, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedono l’incompatibilità a partecipare al giudizio di rinvio del giudice che, quale giudice dell’esecuzione, abbia pronunciato ordinanza di accoglimento o di rigetto della richiesta di applicazione della disciplina del reato continuato, annullata dalla Corte di cassazione.
Le norme censurate violerebbero, in parte qua, l’art. 111, secondo comma, della Costituzione, in forza del quale il giudice deve essere terzo e imparziale, non apparendo tale il giudice che, dopo essersi pronunciato su una questione esprimendo un giudizio di merito – quale quello inerente alla riconducibilità di distinti fatti di reato a un unico disegno criminoso – venga nuovamente chiamato a decidere la medesima questione.
Sarebbe leso, altresì, l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’ingiustificata disparità di trattamento tra le fasi della cognizione e dell’esecuzione, posto che, nell’ipotesi in cui il giudice abbia deciso con sentenza in fase cognitiva, l’annullamento con rinvio della sua decisione comporta, ai sensi dell’art. 623 cod. proc. pen., l’impossibilità per quel giudice di pronunciare nuovamente sulla vicenda, mentre ciò non avviene se il medesimo giudizio è espresso in sede esecutiva, e dunque mediante ordinanza.
2.- In via preliminare, va disattesa l’eccezione dell’Avvocatura dello Stato di inammissibilità della questione per insufficienza della motivazione sulla non manifesta infondatezza.
Il giudice rimettente ha esposto, infatti, in modo compiuto e adeguato le ragioni del ritenuto contrasto delle norme denunciate con i parametri costituzionali evocati, nei termini che si sono poc’anzi riassunti.
3.- Parimenti infondata è l’ulteriore eccezione della difesa dello Stato – prospettata, peraltro, anch’essa in termini meramente assertivi – di inammissibilità della questione per omessa sperimentazione di un’interpretazione costituzionalmente orientata.
4.- Nel merito, la questione è fondata.
In proposito, giova premettere che, per reiterata affermazione di questa Corte, le norme sull’incompatibilità del giudice determinata da atti compiuti nel procedimento, di cui all’art. 34 cod. proc. pen., presidiano i valori della sua terzietà e imparzialità, attualmente oggetto di espressa previsione nel secondo comma dell’art. 111 Cost., aggiunto dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione), ma già in precedenza pacificamente insiti nel sistema costituzionale. Le predette norme risultano volte, in particolare, ad evitare che la decisione sul merito della causa possa essere o apparire condizionata dalla “forza della prevenzione” – ossia dalla naturale tendenza a confermare una decisione già presa o a mantenere un atteggiamento già assunto – scaturente da valutazioni cui il giudice sia stato precedentemente chiamato in ordine alla medesima res iudicanda (ex plurimis, sentenze n. 153 del 2012, n. 177 del 2010 e n. 224 del 2001).
In questa prospettiva, il comma 1 dell’art. 34 cod. proc. pen. si occupa, in via prioritaria, delle ipotesi di incompatibilità conseguenti alla progressione “in verticale” del processo, determinata dalla articolazione e dalla sequenzialità dei diversi gradi di giudizio. Si tratta di un tipo di incompatibilità che salvaguarda la stessa effettività del sistema delle impugnazioni, le quali rinvengono, in linea generale, la loro ratio di garanzia nell’alterità tra il giudice che ha emesso la decisione impugnata e quello chiamato a riesaminarla.
Recando, per corrente notazione, una delle novità più rilevanti del vigente codice di rito in punto di oggetto della competenza del giudice dell’esecuzione, la disposizione in parola abilita quest’ultimo ad applicare, su richiesta del condannato o del pubblico ministero, la disciplina del concorso formale e del reato continuato in relazione ai fatti giudicati con più sentenze o decreti penali irrevocabili, pronunciati in procedimenti distinti contro la stessa persona.
La previsione trova la sua ratio “storica” nell’esigenza di compensare, su un diverso versante, il favor separationis che ispira il sistema processuale di tipo accusatorio. La drastica riduzione dei casi di connessione tra procedimenti – cui rimaneva originariamente estranea l’ipotesi del reato continuato – rendeva, infatti, particolarmente acuta la necessità introdurre strumenti atti ad evitare l’irrimediabile perdita dei vantaggi derivanti dalla continuazione (cumulo giuridico delle pene) da parte dell’imputato che, in quanto giudicato separatamente (anziché cumulativamente) per i singoli episodi criminosi, si fosse vista preclusa la possibilità di una valutazione globale della sua posizione in sede cognitiva, con evidente pregiudizio di posizioni costituzionalmente presidiate, a cominciare dal principio di eguaglianza (art. 3 Cost.).
Il mutamento di indirizzo legislativo registratosi al principio degli anni ’90 – che ha portato all’inserimento della continuazione tra i casi di connessione (art. 12, comma 1, lettera b, cod. proc. pen., come modificato dal decreto-legge 20 novembre 1991, n. 367, recante «Coordinamento delle indagini nei procedimenti per reati di criminalità organizzata», convertito, con modificazioni, nella legge 20 gennaio 1992, n. 8) – si è limitato a ridurre il campo operativo della norma, ma non ne ha appannato né la ratio, né l’utilità pratica. L’applicabilità della continuazione in sede esecutiva consente tuttora di evitare irragionevoli sperequazioni dovute a fattori meramente casuali, per effetto dei quali i reati in continuazione (o in concorso formale) siano stati giudicati nell’ambito di processi distinti, anziché in un unico processo cumulativo (ordinanza n. 43 del 2013).
Ma se l’esigenza di ripristinare l’eguaglianza vale in rapporto alla determinazione del trattamento sanzionatorio (applicazione del cumulo giuridico delle pene, in luogo del cumulo materiale), essa non può non valere anche in relazione all’applicazione della disciplina sull’incompatibilità del giudice, posta a presidio della sua imparzialità.
Come denuncia l’odierno rimettente, se è il giudice della cognizione a negare l’identità del disegno criminoso, l’annullamento su questo punto della sua sentenza lo rende incompatibile a partecipare al giudizio di rinvio, ai sensi dell’art. 34, comma 1, cod. proc. pen. Se l’identica valutazione è operata dal giudice dell’esecuzione, ciò viceversa non avviene.
6.- Nella verifica della ragionevolezza di un simile regime differenziato, non si possono, d’altra parte, non considerare le eccezionali caratteristiche dell’intervento del giudice dell’esecuzione nel caso in esame (ordinanza n. 43 del 2013).
La soluzione offerta dal legislatore al problema del ripristino dell’eguaglianza – quella, appunto, di demandare al giudice dell’esecuzione la “sintesi” delle condotte giudicate separatamente, determinandone le conseguenze ai sensi dell’art. 81 del codice penale – comporta una evidente “frattura” dell’ordinario discrimen tra fase cognitiva e fase esecutiva, sotto un duplice profilo.
Dall’altro lato, la soluzione normativa in discorso comporta l’apertura di una evidente breccia nel principio di intangibilità del giudicato. All’esito del riconoscimento della continuazione (o del concorso formale), il giudice dell’esecuzione si trova, infatti, abilitato a modificare il trattamento sanzionatorio inflitto in sede cognitiva: non solo, e anzitutto, riducendo le pene principali, ma anche, eventualmente, eliminando o riducendo pene accessorie e misure di sicurezza o altri effetti penali della condanna (sono i provvedimenti consequenziali cui si riferisce il comma 3 dell’art. 671 cod. proc. pen.). Lo stesso comma 3 dell’art. 671 riconosce, altresì, espressamente al giudice dell’esecuzione il potere di concedere la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando ciò derivi dal riconoscimento della continuazione (o del concorso formale).
7.- Gli artt. 34, comma 1, e 623, comma 1, lettera a), cod. proc. pen. vanno dichiarati, pertanto, costituzionalmente illegittimi, nella parte in cui non prevedono che non possa partecipare al giudizio di rinvio dopo l’annullamento il giudice che ha pronunciato o concorso a pronunciare ordinanza di accoglimento o rigetto della richiesta di applicazione in sede esecutiva della disciplina del reato continuato, ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen.
La dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa, in via consequenziale, all’ipotesi dell’annullamento con rinvio dell’ordinanza che si pronunci sulla richiesta di applicazione in sede esecutiva della disciplina del concorso formale: fattispecie regolata congiuntamente a quella oggetto del quesito dallo stesso art. 671 cod. proc. pen. e in rapporto alla quale valgono le stesse considerazioni.
LA CORTE COSTITUZIONALE