Con la sentenza n. 139 del 14 aprile 2010, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 76, co. 4 bis, del D.P.R. 115/200, nella parte in cui, stabilendo che per i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati indicati nella stessa norma il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti per l’ammissione al patrocino a spese dello Stato, non ammette la prova contraria, stabilendo – tra l’altro – che l’introduzione costituzionalmente obbligata, della prova contraria, non elimina dall’ordinamento la presunzione prevista dal legislatore, che continua dunque ad implicare una inversione dell’onere di documentare la ricorrenza dei presupposti reddituali per l’accesso al patrocinio.
Spetterà al richiedente dimostrare, con allegazioni adeguate, il suo stato di «non abbienza», e spetterà al giudice verificare l’attendibilità di tali allegazioni, avvalendosi di ogni necessario strumento di indagine.
[OMISSIS]
1. – Il Tribunale di Catania in composizione monocratica, con ordinanza del 17 luglio 2009 (r.o. n. 299 del 2009), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo e terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui – avuto riguardo ai soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati di cui agli artt. 416-bis del codice penale, 291-quater del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale), 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 80, e 74, comma 1, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nonché per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo – esclude la possibilità di dimostrare, ai fini dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, l’indisponibilità di un reddito superiore ai limiti indicati nell’art. 76, comma 1, dello stesso d.P.R. n. 115 del 2002.
Il giudice rimettente è chiamato a valutare il reclamo proposto dall’interessato, già in precedenza ammesso a fruire del patrocinio a spese dello Stato, nei confronti del provvedimento con il quale il Tribunale di Catania, preso atto dell’esistenza a suo carico di una precedente condanna irrevocabile per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., ha disposto la revoca del beneficio. Ciò in applicazione del comma 4-bis dell’art. 76 del testo unico in materia di spese di giustizia, introdotto dall’art. 12-ter, comma 1, lettera a), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), nel testo integrato dalla relativa legge di conversione (art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125).
Il giudice a quo osserva, in punto di rilevanza, come la revoca dell’ammissione sia stata correttamente disposta, con il provvedimento oggetto di reclamo, alla luce della previsione contenuta nell’art. 112, comma 1, lettera d), dello stesso d.P.R. n. 115 del 2002, secondo cui, entro i cinque anni successivi alla definizione del processo, il giudice provvede a revocare il beneficio del patrocinio a spese dello Stato nel caso constati la mancanza, «originaria o sopravvenuta», delle relative condizioni di reddito. In particolare, anche la presunzione negativa introdotta con il d.l. n. 92 del 2008 dovrebbe essere apprezzata nella valutazione sulla perdurante ammissibilità del beneficio.
Non potrebbe essere accolta, a tale ultimo proposito, la tesi prospettata dalla difesa del reclamante, fondata sull’asserita «natura sostanziale» della norma censurata e dunque sulla sua irretroattività secondo il disposto dell’art. 2 cod. pen. La legge sul patrocinio a spese dell’Erario, osserva il rimettente, impone una valutazione «dinamica» dei requisiti reddituali, e la normativa di nuova introduzione influisce sull’accertamento dei redditi in questione.
Poste tali premesse, il giudice a quo ritiene che l’introduzione di una presunzione iuris et de iure circa il superamento del reddito compatibile con il beneficio contrasti con il dettato costituzionale.
Dopo aver richiamato, in particolare, il disposto del terzo comma dell’art. 24 Cost., il rimettente sottolinea come la Corte costituzionale abbia stabilito che la difesa dei non abbienti è oggetto di un interesse generale, oltre che soggettivo, tanto che non rilevano le ragioni concrete dell’indisponibilità di un reddito adeguato (sono citate le sentenze n. 144 del 1992, n. 139 del 1998 e n. 33 del 1999). La Corte di cassazione, dal canto suo, avrebbe posto in luce la particolare cogenza, nei giudizi penali, dell’interesse pubblico ad una piena esplicazione del diritto di difesa (è richiamata la sentenza delle Sezioni unite penali n. 25 del 24 novembre 1999).
Chiarito il rango costituzionale del diritto all’assistenza tecnica dei non abbienti, il giudice a quo rileva come la presunzione introdotta dal legislatore discrimini ingiustificatamente tra coloro che siano stati condannati per i delitti indicati nella norma censurata e persone che siano state condannate per reati diversi. La differenza di trattamento non potrebbe essere giustificata «con il solo riferimento al maggior allarme sociale derivante dalla commissione dei delitti» compresi nell’elenco dello stesso comma 4-bis dell’art. 76. D’altra parte, se il legislatore avesse inteso semplicemente escludere i soggetti in questione dall’accesso al beneficio, l’avrebbe esplicitamente disposto, secondo il modello già applicato con riguardo ad alcuni reati tributari (art. 91 del d.P.R. n. 115 del 2002).
I principi di uguaglianza e ragionevolezza sarebbero violati anche sotto altri profili. Sarebbe ingiustificato, anzitutto, il diverso trattamento istituito tra gli appartenenti ad associazioni criminali: infatti, riguardo ai componenti delle associazioni di tipo mafioso e delle associazioni finalizzate al contrabbando di tabacchi lavorati esteri, la norma censurata introduce una presunzione generalizzata di «abbienza», senza distinguere a seconda del ruolo, ed in particolare tra dirigenti e semplici partecipi; nel caso delle associazioni finalizzate al narcotraffico, invece, la citata presunzione colpisce unicamente organizzatori e dirigenti del sodalizio, posto il riferimento in via esclusiva al comma 1 dell’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990. Non sarebbe ragionevole, secondo il rimettente, una differente valutazione del ruolo apicale in ragione delle diverse finalità perseguite dai gruppi criminali.
Del pari irragionevole sarebbe l’analogia di trattamento istituita tra i partecipi di un’associazione mafiosa ed i soggetti che abbiano «solo» commesso un reato avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. od al fine di agevolare l’attività di una associazione di tipo mafioso. L’estensione del meccanismo presuntivo a soggetti non appartenenti al gruppo criminale, per quanto ad esso contigui, varrebbe a contraddire la stessa ratio dell’intervento legislativo.
La normativa censurata colliderebbe anche con l’art. 24, terzo comma, Cost., con l’art. 6, comma 3, lettera c), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e con l’art. 14, comma 3, lettera d), del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, firmato a New York il 16 dicembre 1966, che garantiscono ai non abbienti «la possibilità di accedere, comunque, alla difesa».
La presunzione censurata avrebbe l’effetto concreto di escludere sempre, senza possibilità di eccezione, l’accesso di determinati soggetti al patrocinio, non già in forza della loro condizione di reddito, ma «in ragione delle risultanze del certificato del casellario giudiziale»: sarebbe inutile finanche la positiva documentazione della concreta indisponibilità di un reddito eccedente i limiti posti dalla legge per l’accesso al beneficio. Una condanna per un reato compreso nell’elenco dei precedenti preclusivi, specie se risalente, non sarebbe effettivamente significativa circa l’attuale condizione di «abbienza» dell’interessato, il quale, ad esempio, potrebbe essersi allontanato dall’ambiente criminale. Di conseguenza la norma censurata, almeno nella parte in cui non ammette il condannato a produrre elementi di prova utili a vincere la relativa presunzione, determinerebbe una lesione del diritto di difesa, sia con riguardo al terzo comma dell’art. 24 Cost., sia con riferimento al secondo comma della stessa norma, posto che l’accesso al patrocinio rappresenta lo strumento per il pieno ed effettivo esercizio del diritto in questione.
Il rimettente esclude, da ultimo, che i dubbi circa la legittimità della norma oggetto di censura possano essere superati attraverso una interpretazione «costituzionalmente orientata», che neghi il carattere assoluto della presunzione ed ammetta, dunque, la possibilità di una prova contraria. Sarebbero ostativi, in tal senso, sia il tenore letterale della disposizione, sia la chiara intenzione del legislatore (desunta, nella specie, dai lavori preparatori delle assemblee parlamentari, ove si legge che la norma censurata «prevede l’esclusione del gratuito patrocinio per i condannati» riguardo a determinati reati).
2. – Il Tribunale di Lecce, sezione distaccata di Campi Salentina, con ordinanza del 26 marzo 2009 (r.o. n. 301 del 2009), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. n. 115 del 2002, nella parte in cui esclude – con riguardo ai soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati di cui agli artt. 416-bis cod. pen., 291-quater del d.P.R. n. 43 del 1973, 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’art. 80, e 74, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, nonché per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo – che il giudice possa verificare se il richiedente l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato abbia ricavato redditi dal reato pregresso, e se tali redditi permangano, in misura superiore a quella fissata per l’accesso al patrocinio, nell’anno antecedente alla presentazione dell’istanza.
Il giudice a quo deve provvedere sulla richiesta dell’imputato di essere ammesso al patrocinio a spese dello Stato, e rileva che l’interessato è stato condannato con pronuncia irrevocabile per il delitto di associazione di tipo mafioso. Tale precedente, pur ricorrendo tutti gli ulteriori presupposti per l’accoglimento, imporrebbe il rigetto della domanda.
La norma censurata, secondo il rimettente, introduce una presunzione avente ad oggetto l’esistenza, l’ammontare e la durevolezza del reddito (pur illecito) prodotto da determinati delitti. Detta presunzione sarebbe assoluta, producendo gli stessi effetti di una diretta esclusione dal beneficio dei condannati per i reati in questione, così da elevare a prova insuperabile di «abbienza» una «norma di esperienza relativa» che, come tale, dovrebbe invece essere sottoposta alla verifica del caso concreto.
La regola di prova introdotta dal legislatore violerebbe il principio di uguaglianza sotto molteplici profili, proprio in quanto fondata su una presunzione irragionevole. I delitti associativi sono puniti anche quando non sia stato commesso alcun reato di attuazione del programma. Non ogni reato produce necessariamente un profitto e, comunque, non sempre i profitti conseguiti in ambito associativo vengono distribuiti fra tutti i componenti del gruppo criminale. Non potrebbe essere stabilito in via presuntiva, inoltre, che il reddito (illecito) conseguito al reato superi per quantità la soglia fissata per l’accesso al patrocinio. In ogni caso, dovrebbe essere dimostrata la disponibilità del reddito in questione nell’anno fiscale antecedente alla domanda, e la presunzione diverrebbe tanto più irragionevole quanto più lontani nel tempo risultino i fatti accertati con la sentenza di condanna (nel caso di specie, i fatti stessi risalgono a circa nove anni prima della domanda proposta nel giudizio a quo).
La disposizione censurata, in definitiva, comporterebbe una illegittima discriminazione tra i condannati per determinati reati e gli ulteriori instanti per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, e produrrebbe, per i primi, una ingiustificata compressione del diritto di difesa.
3. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio introdotto con l’ordinanza r.o. n. 301 del 2009, mediante atto depositato in data 5 gennaio 2010, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.
L’applicazione della norma censurata presuppone, infatti, che la colpevolezza dell’interessato per i reati in essa indicati sia stata accertata con sentenza irrevocabile. D’altro canto, la presunzione circa la disponibilità di redditi incompatibili con l’accesso al beneficio – presunzione effettivamente insuperabile – sarebbe fondata su una «consolidata massima di esperienza», che documenta l’enormità dei profitti prodotti dal crimine organizzato. Il ricorso a meccanismi presuntivi sarebbe imposto proprio dal carattere illecito, e dunque clandestino, dei redditi in discussione.
Secondo la difesa erariale, la discrezionalità legislativa trova il limite della ragionevolezza e non quello della «certezza» delle conseguenze che vengono tratte da una determinata premessa. Sarebbe ingiustificato l’accollo da parte dello Stato degli oneri pertinenti alla difesa di soggetti la cui condizione di non «abbienza» appaia tale solo in forza dell’occultamento del patrimonio posseduto. La necessità di evitare questo effetto, che risulterebbe «odioso al comune sentire dei cittadini», giustificherebbe «il rischio che, in qualche sporadico caso, il reato commesso non abbia reso, in termini economici, i profitti consueti».
Sarebbe anche ragionevole, sempre a parere dell’Avvocatura generale, la presunzione che i profitti ricavati dalle attività criminali indicate si risolvano «per molti anni» in redditi superiori ai limiti fissati per l’accesso al patrocinio, il che renderebbe irrilevante la questione del tempo intercorso tra la condanna e la successiva istanza di ammissione.
La normativa censurata, in realtà, sarebbe inserita in un più generale contesto di accentuata severità nel trattamento di reati ad elevato allarme sociale, anche sul piano delle regole processuali e dell’ordinamento penitenziario, in una logica di «doppio binario» la cui ammissibilità sarebbe stata asseverata tanto dalla Corte costituzionale che dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Considerato in diritto
1. – I Tribunali di Catania e di Lecce (sezione distaccata di Campi Salentina), entrambi in composizione monocratica, sollevano questioni di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui – avuto riguardo ai soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati di cui agli artt. 416-bis del codice penale, 291-quater del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale), 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’art. 80, e 74, comma 1, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nonché per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo – esclude la possibilità di accertare, ai fini dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, l’indisponibilità di un reddito superiore ai limiti indicati nell’art. 76, comma 1, dello stesso d.P.R. n. 115 del 2002.
1.1. – Secondo il Tribunale di Catania la norma censurata – stabilendo con presunzione assoluta che il reddito del condannato «si ritiene» superiore ai limiti fissati per l’accesso al patrocinio – contrasterebbe con l’art. 3 della Costituzione, anzitutto per la difformità di trattamento istituita, senza giustificazione, tra i soggetti condannati per reati indicati nella stessa norma e quelli condannati per reati diversi, ma di gravità comparabile. Sarebbero inoltre discriminati tra loro gli appartenenti con ruoli non apicali ad associazioni criminose, sul solo presupposto delle differenti finalità perseguite dalle rispettive organizzazioni e della conseguente, diversa qualificazione giuridica. Nello stesso tempo, la norma censurata assimilerebbe, senza alcuna giustificazione, i soggetti appartenenti ad associazioni di tipo mafioso e quelli che, pur avendo agito per favorire dette associazioni oppure avvalendosi delle connesse capacità di intimidazione, non siano stati partecipi delle relative organizzazioni criminali.
Il Tribunale di Catania prospetta anche una violazione del secondo comma dell’art. 24 Cost., nonché del terzo comma della medesima norma, evocato unitamente all’art. 6, comma 3, lettera c), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ed all’art. 14, comma 3, lettera d), del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, firmato a New York il 16 dicembre 1966. La norma censurata, in particolare, eluderebbe il diritto all’assistenza gratuita ed al pieno esercizio della difesa con riferimento a soggetti che, pur avendo in precedenza commesso un reato incluso nell’elenco contenuto nella norma stessa, non dispongano di un reddito adeguato.
In ragione dei vizi denunciati, secondo il Tribunale, il comma 4-bis dell’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002 dovrebbe essere dichiarato illegittimo nella parte in cui non consente al richiedente, il quale sia stato in precedenza condannato con riguardo ad un reato «ostativo», di provare la mancata percezione di un reddito superiore ai limiti fissati nel primo comma dello stesso art. 76.
1.2. – Il Tribunale di Lecce (sezione distaccata di Campi Salentina) prospetta una violazione dell’art. 3 Cost. per l’asserita irragionevolezza della presunzione sottesa alla norma oggetto di censura, che accredita all’interessato, per l’anno fiscale antecedente alla sua istanza di patrocinio a spese dello Stato, un reddito superiore ai limiti di accesso. Ciò sebbene l’intervenuta condanna possa riguardare un reato non necessariamente produttivo di profitti nella misura indicata, o comunque non produttivo di redditi tali da legittimare la stessa presunzione a prescindere dal tempo intercorso tra il fatto criminoso e l’epoca di presentazione dell’istanza.
Secondo il rimettente, il denunciato contrasto con la Costituzione dovrebbe essere rimosso dichiarando illegittima la norma censurata nella parte in cui non consente al giudice di verificare se il reato cui si riferisce la condanna «ostativa» abbia davvero prodotto, con specifico riguardo all’anno antecedente alla richiesta del patrocinio, un reddito superiore ai limiti per l’accesso al beneficio.
2. – Le ordinanze di rimessione riguardano la stessa norma, e pongono questioni analoghe, di talché, al fine di una trattazione unitaria, è opportuna la riunione dei relativi procedimenti.
3. – Le questioni sono fondate, nei termini di seguito specificati.
3.1. – Preliminarmente occorre rilevare che la norma censurata contiene una presunzione di possesso di un reddito superiore a quello minimo previsto dalla legge, che, se ritenuta assoluta, non ammette la prova del contrario e rende pertanto inutili ed irrilevanti eventuali indagini del giudice, volte ad accertare le effettive condizioni economiche dell’imputato. Che si tratti di presunzione iuris et de iure emerge con chiarezza dal dato testuale della disposizione in oggetto: per i soggetti in essa indicati «il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti». Non sono stabiliti, nella norma in questione, condizioni e metodi per svolgere accertamenti, facoltativi od obbligatori, sul reddito del richiedente, ma si indica, con l’uso perentorio del presente indicativo, la conclusione cui il giudice deve pervenire, in base al semplice accertamento che l’imputato sia stato condannato con sentenza definitiva per uno dei reati elencati nella norma stessa. Si tratta, non senza qualche eccezione, di reati collegati alle associazioni a delinquere di stampo mafioso, alle associazioni finalizzate al narcotraffico ed al contrabbando di tabacchi lavorati esteri.
L’intento del legislatore è quello di evitare che soggetti in possesso di ingenti ricchezze, acquisite con le attività delittuose appena indicate, possano paradossalmente fruire del beneficio dell’accesso al patrocinio a spese dello Stato, riservato, per dettato costituzionale (art. 24, terzo comma), ai «non abbienti». Tale eventualità è resa più concreta dall’estrema difficoltà di accertare in modo oggettivo il reddito proveniente dalle attività delittuose della criminalità organizzata, a causa delle maggiori possibilità, per i partecipi delle relative associazioni, di avvalersi di coperture soggettive e di strumenti di occultamento delle somme di denaro e dei beni accumulati.
La stessa difesa dello Stato, che pur chiede il rigetto della questione, ammette il carattere insuperabile della preclusione di ogni accertamento nel caso concreto, derivante dalla natura assoluta della presunzione.
L’interesse dei soggetti non abbienti che potrebbero restare privi della garanzia di un pieno esercizio del diritto di difesa, sacrificato secondo l’Avvocatura dello Stato in casi «sporadici», costituirebbe una sorta di bene cedevole nel bilanciamento necessario al fine di evitare un effetto «odioso al comune sentire dei cittadini», consistente nel pubblico impegno per la difesa di persone, responsabili di gravi reati, che solo apparentemente versano in una situazione di povertà.
3.2. – Accertato che la disposizione censurata contiene una presunzione assoluta – presupposto sul quale i rimettenti escludono la possibilità di una interpretazione costituzionalmente orientata – occorre mettere a confronto la norma in sé e per sé considerata, la sua ratio, come prima identificata, e le norme costituzionali invocate come parametri, vale a dire gli artt. 3 e 24, secondo e terzo comma, Cost.
4. – Questa Corte ha precisato che le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit (sentenze n. 139 del 1982, n. 333 del 1991, n. 225 del 2008). In particolare, è stato posto in rilievo che l’irragionevolezza della presunzione assoluta si può cogliere tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa (sentenza n. 41 del 1999).
4.1. – Nel caso di specie, occorre porsi la domanda se sia “agevole” formulare ipotesi in cui il reddito, superiore a quello minimo previsto dalla legge per accedere al gratuito patrocino, non sia nella effettiva disponibilità del soggetto richiedente, con la conseguenza che lo stesso si trovi nella impossibilità di assicurarsi un’adeguata difesa fiduciaria.
Occorre premettere, al fine indicato, che l’elenco di cui al comma 4-bis dell’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002 comprende anche reati non necessariamente riferibili, nella prospettiva del singolo autore, ad un contesto di criminalità organizzata. È il caso, ad esempio, di alcune ipotesi aggravate di illecita detenzione di sostanze stupefacenti, che sono appunto comprese tra le fattispecie ostative ma non sono per se stesse significative di una stabile dedizione ad attività criminali particolarmente lucrose.
Ad ogni modo, pur se riguardata nella sua dimensione prevalente di norma relativa al crimine organizzato, la disposizione censurata non si sottrae ad un giudizio di irragionevolezza, per il carattere assoluto della presunzione introdotta.
Una prima conclusione in tal senso emerge dal dato, di comune esperienza e avvalorato dalla giurisprudenza ordinaria, secondo cui esiste una sensibile differenza tra la posizione ed il reddito dei capi delle associazioni criminali e la cosiddetta manovalanza del crimine, spesso compensata con somme di scarsa entità, che non consentono disponibilità economiche di consistenza tale da procurare ai percettori risorse adeguate a provvedere alla loro difesa in eventuali futuri processi.
A questo proposito vengono in rilevo due considerazioni, che si combinano nella valutazione sulla legittimità costituzionale della norma censurata.
La prima è relativa alla illimitata durata nel tempo della preclusione all’accertamento dell’effettiva situazione economica dei soggetti che richiedono l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato. La indistinta assimilazione di capi e gregari delle associazioni criminali ha l’effetto di applicare una misura eguale a situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza concreta – fortemente differenziate. La conseguenza è che, pur potendosi agevolmente ipotizzare casi di «non abbienza» per i semplici partecipi delle organizzazioni criminali, questi ultimi subiscono lo stesso trattamento dei loro capi, che dalle attività delittuose hanno tratto ingenti profitti, tali da assicurare disponibilità finanziarie per un più lungo periodo. La presunzione assoluta, nei casi indicati, produce l’effetto sostanziale di una impropria sanzione, per il fatto di appartenere o di essere appartenuto ad una organizzazione criminale, consistente nella limitazione indiscriminata nell’esercizio di un diritto fondamentale come quello di difesa.
Il legislatore mostra di essere consapevole della difficoltà di una completa assimilazione nel trattamento dei membri di un’organizzazione criminale, ed esclude che la presunzione colpisca anche i meri partecipi delle associazioni dedite al narcotraffico. Tutta da dimostrare rimane tuttavia una migliore, generalizzata situazione patrimoniale dei meri partecipi ad associazioni di tipo mafioso o dedite al contrabbando di tabacchi.
La seconda considerazione che si impone è quella relativa all’irrilevanza, ai fini della norma censurata, dei percorsi individuali successivi alla condanna definitiva per uno dei reati, che può essere molto risalente nel tempo – come nel caso del rimettente Tribunale di Lecce – senza che abbia rilievo un eventuale, accertato allontanamento del soggetto instante dal contesto criminale di maturazione del fatto.
Giova sottolineare che la presunzione assoluta opera per l’assistenza difensiva necessaria in processi aventi ad oggetto qualunque tipo di reato, anche del tutto eterogeneo rispetto alle attività della criminalità organizzata, con la conseguenza che non acquista alcun rilievo una eventuale estraneazione dalle associazioni criminali indicate nella norma. In casi del genere la regola presuntiva non trova conferma neppure nel possibile valore sintomatico della nuova imputazione, che d’altronde consisterebbe in un’accusa non ancora comprovata.
La presunzione in esame, estesa a tutti reati e senza limite di tempo, impedisce che si possa tener conto di un eventuale percorso di emancipazione dai vincoli dell’organizzazione criminale, perfino nell’ipotesi in cui il soggetto sia imputato di un reato, anche colposo, che nulla abbia a che fare con la criminalità organizzata. È agevole ipotizzare la situazione di disagio personale, economico e sociale, di chi, partecipe di una associazione di stampo mafioso, tenti il reinserimento nella società, incontri difficoltà a trovare lavoro e sconti, in vari campi della vita di relazione, la sua pregressa appartenenza e si trovi coinvolto in procedimenti penali, nei quali non possa esercitare una difesa adeguata – proprio per dimostrare la sua estraneità al crimine – a causa di una reale condizione di indigenza, il cui accertamento è precluso al giudice dalla norma censurata.
A tutto ciò si deve aggiungere che tale norma esplica i propri effetti non soltanto quando il condannato sia chiamato a difendersi in un nuovo procedimento penale, ma anche nel caso del suo coinvolgimento in un processo civile, amministrativo, contabile o tributario, e dunque in situazioni prive del minimo significato, di natura anche soltanto indiziaria, circa l’attualità di un comportamento criminale.
4.2. – Finanche l’ottenuta riabilitazione non inciderebbe sull’esclusione perpetua dall’accesso al patrocinio a spese dello Stato. L’art. 178 cod. pen. stabilisce infatti che la riabilitazione estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna. Tuttavia la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che componente essenziale dell’effetto penale è la natura sanzionatoria dello stesso (Cass., Sezioni unite penali, sentenza 20 aprile 1994, n. 7); tale componente non sussiste nell’esclusione dal patrocinio, che trova la sua ratio, come già detto, nella presunzione che il soggetto condannato per reati collegati alla criminalità organizzata abbia lucrato dalla sua attività delittuosa in misura tale da renderlo privo del requisito del reddito inferiore al minimo stabilito dalla legge. Sarebbe del resto palesemente abnorme configurare come sanzione una compressione del diritto di difesa, per l’evidente assurdità di diminuire, per effetto di una condanna in sede penale, la possibilità di difendersi da successive azioni penali.
In sintesi, la norma censurata imprime sui soggetti in essa indicati uno stigma permanente e incancellabile, che incide, comprimendolo, sul diritto fondamentale di difesa, così come configurato dall’art. 24, secondo e terzo comma, Cost.
5. – Alle considerazioni di cui sopra si deve aggiungere il rilievo che il terzo comma dell’art. 24 Cost. contiene una prescrizione generale e incondizionata, che integra e completa quella del secondo comma, con l’effetto che l’accesso al patrocinio a spese dello Stato può essere diversamente regolato per i non abbienti solo in presenza di altri principi costituzionali da salvaguardare, per garantire la tutela di beni individuali o collettivi di pari meritevolezza. Questi ultimi, in ogni caso, non possono incidere sul pieno esercizio del diritto di difesa (l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato comporta com’è noto, oltre alla facoltà di scegliere un difensore di fiducia, la possibilità del ricorso a consulenti ed investigatori privati, ed un più favorevole regime per quanto attiene alle spese processuali).
Non occorre spendere molte parole per ricordare quanto l’attività delittuosa della criminalità organizzata provochi gravi lesioni dei diritti fondamentali dei cittadini e incida negativamente sulle condizioni di vita democratica e civile di intere comunità, determinando, di contro, cospicui arricchimenti per gli associati. Su questi presupposti sociali, il legislatore ben può introdurre discipline particolari, anche nella fruizione di diritti fondamentali, che tuttavia non possono mai risolversi nella pratica vanificazione degli stessi.
Nel caso di specie, non può ritenersi irragionevole che, sulla base della comune esperienza, il legislatore presuma che l’appartenente ad una organizzazione criminale, come quelle indicate nella norma censurata, abbia tratto dalla sua attività delittuosa profitti sufficienti ad escluderlo in permanenza dal beneficio del patrocinio a spese dello Stato. Ciò che contrasta con i principi costituzionali è il carattere assoluto di tale presunzione, che determina una esclusione irrimediabile, in violazione degli artt. 3 e 24, secondo e terzo comma, Cost. Si deve quindi ritenere che la norma censurata sia costituzionalmente illegittima nella parte in cui non ammette la prova contraria.
6. – L’introduzione, costituzionalmente obbligata, della prova contraria, non elimina dall’ordinamento la presunzione prevista dal legislatore, che continua dunque ad implicare una inversione dell’onere di documentare la ricorrenza dei presupposti reddituali per l’accesso al patrocinio. Spetterà al richiedente dimostrare, con allegazioni adeguate, il suo stato di «non abbienza», e spetterà al giudice verificare l’attendibilità di tali allegazioni, avvalendosi di ogni necessario strumento di indagine.
Certamente non potrà essere ritenuta sufficiente una semplice auto-certificazione dell’interessato, peraltro richiesta a tutti coloro che formulano istanza di accesso al beneficio, poiché essa non potrà essere considerata «prova contraria», idonea a superare la presunzione stabilita dalla legge. Sarà necessario, viceversa, che vengano indicati e documentati concreti elementi di fatto, dai quali possa desumersi in modo chiaro e univoco l’effettiva situazione economico-patrimoniale dell’imputato.
Rispetto a tali elementi di prova, il giudice avrà l’obbligo di condurre una valutazione rigorosa e allo scopo potrà certamente avvalersi degli strumenti di verifica che la legge mette a sua disposizione, anche di quelli, particolarmente penetranti, indicati all’art. 96, comma 3, del d.P.R. n. 115 del 2002. La ratio della relativa previsione – che concerne le richieste di accesso al patrocino a spese dello Stato da parte degli imputati per uno dei reati previsti dall’art. 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale – è certamente valida anche per le fattispecie oggetto del presente giudizio.
P.Q.M.
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui, stabilendo che per i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati indicati nella stessa norma il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti per l’ammissione al patrocino a spese dello Stato, non ammette la prova contraria.