Poiché l’accesso al giudizio abbreviato non esplica alcuna efficacia sanante rispetto alla sussistenza di cause d’inutilizzabilità cosiddetta patologica, la definizione della regiudicanda con tale rito non comporta effetti preclusivi alla rilevabilità di tali cause, con la conseguenza che 1) le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate, 2) l’inosservanza del divieto è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento a norma dell’art. 191/2 c.p.p., 3) il vizio può eccepito dalle parti, per la prima volta, nel giudizio di cassazione e 4) può essere rilevato anche dal giudice di legittimità oltre il devolutum a norma dell’art. 609 c.p.p., comma 2.
(Nel caso di specie, è stata dichiarata l’inutilizzabilità dei risultati probatori conseguiti con intercettazioni disposte, convalidate e prorogate con decreti privi di motivazione)
(Cass. Sezione III Penale, 26 novembre 2014 – 16 aprile 2015, n. 15828)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TERESI Alfredo – Presidente –
Dott. GRILLO Renato – Consigliere –
Dott. DI NICOLA Vito – rel. Consigliere –
Dott. PEZZELLA Vincenzo – Consigliere –
Dott. MENGONI Enrico – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
Sentenza
sul ricorso proposto da:
1. OMISSIS;
2. OMISSIS;
3. OMISSIS;
4. OMISSIS;
5. OMISSIS;
6. OMISSIS;
7. OMISSIS;
8. OMISSIS;
avverso la sentenza del 15/05/2012 della Corte di Appello di Perugia;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Vito Di Nicola;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. Policastro Aldo, che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi;
Uditi per gli imputato gli avvocati che hanno concluso per l’accoglimento dei rispettivi ricorsi.
1. Gli imputati ricorrono per cassazione avverso la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Perugia, in parziale riforma della sentenza emessa dal tribunale della medesima città, ha rideterminato la pena inflitta a
OMISSIS
di reclusione per i reati di associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e per vari reati di detenzione per fini di spaccio di sostanza stupefacente (D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 e 74).
La contestazione per il reato associativo è stata mossa sul presupposto di essersi i ricorrenti associati fra loro e con altre persone ignote o non compiutamente identificate, allo scopo di commettere, con il ruolo di partecipi, una serie indeterminata di reati di importazione, detenzione e cessione di ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti, prevalentemente del tipo cocaina, ma anche del tipo ecstasy (in OMISSIS).
2. Per la cassazione dell’impugnata sentenza, i suindicati ricorrenti articolano i seguenti motivi di gravame, qui enunciati, ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p., nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. OMISSIS e OMISSIS affidano il gravame a tre motivi con i quali deducono:
1) la violazione e l’erronea applicazione della legge penale con riferimento al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 (capo a dell’imputazione) in ordine alla ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi di tale fattispecie incriminatrice nonchè vizio della motivazione (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione all’art. 125 c.p.p., comma 3, art. 546 c.p.p., lett. e) per manifesta illogicità e contraddittorietà emergente dal testo della sentenza impugnata.
Assumono come la sentenza impugnata, patrocinando un orientamento interpretativo della fattispecie ex D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 ispirato ad una evidente atipicità, sia carente e viziata in riferimento a tutti i profili di rilievo della regiudicanda. Nei confronti dei ricorrenti è stata infatti contestata, nel capo a) della rubrica, la condotta di (presunta) partecipazione al sodalizio criminoso senza tuttavia la precisazione di alcun ruolo, limitandosi l’accusa ad indicare nei confronti di ricorrenti l’assunzione della mera “qualità di partecipi” (primo motivo);
2) la violazione e l’erronea applicazione della legge penale con riferimento al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 in ordine alla ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice contestata nonchè vizio della motivazione (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione all’art. 125 c.p.p., comma 3, art. 546 c.p.p., lett. e) per manifesta illogicità e contraddittorietà emergente dal testo della sentenza impugnata ed omessa motivazione su punti decisivi per il giudizio.
Sostengono i ricorrenti che i Giudici di merito non hanno in alcun modo motivato circa i rilievi difensivi articolati nell’atto di appello, rilievi volti ad evidenziare lo specifico aspetto costituito dalla inesistenza della condotta tipica ex D.P.R. 309 del 1990, art. 73 ritenendo erroneamente che gli elementi posti a fondamento del giudizio di colpevolezza in ordine al reato associativo, per altro del tutto insussistente, potessero valere anche per il reato fine.
Per la OMISSIS, poi, il compendio probatorio acquisito non avrebbe consentito nè l’individuazione di uno solo dei presunti acquirenti, nè l’acquisizione (recte sequestro) di sostanza stupefacente ovvero di dati sintomatici della condotta rilevante (quali bilancini di precisione, sostanze per il taglio dello stupefacente ed altro) nonostante una complessa attività investigativa durata a lungo (molti mesi) e svolta contestualmente alle captazioni telefoniche ed ambientali, nonchè ad attività di osservazione, pedinamento e controllo. Su tali punti, i ricorrenti denunciano un’assoluta mancanza di motivazione che irrimediabilmente vizierebbe il decisum (secondo motivo);
3) la violazione e l’erronea applicazione della legge penale con riferimento al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, nonchè vizio della motivazione (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione all’art. 125 c.p.p. e art. 546 c.p.p., lett. e).
Affermano i ricorrenti che la sentenza impugnata affronta il profilo denunciato ritenendo la reiterazione delle condotte ostativa all’applicazione della fattispecie attenuata (ora, per ius superveniens, autonomo titolo di reato) in questione. Tuttavia militerebbe a sostegno della tesi difensiva la stessa circostanza evocata dalla decisione impugnata circa la condizione di consumatori di cocaina da parte di entrambi i ricorrenti, aspetto indicativo della modalità tenue della condotta loro ascritta, specie per la ricorrente in ordine alla quale si sottolinea essere persona incensurata, occasionale cedente (se anche l’accusa fosse confermata) di modesti quantitativi, funzionali a sostenere gli oneri economici dell’uso personale (terzo motivo).
I ricorrenti hanno infine presentato due motivi aggiunti: il primo ad ulteriore sostegno del primo motivo di ricorso ribadendo che manca in sentenza una puntuale ricostruzione del ruolo ricoperto all’interno del sodalizio, manca ogni riferimento al contributo causale arrecato e non si fa menzione degli elementi rivelatori del correlato coefficiente psicologico.
Con il secondo motivo (comune agli altri ricorrenti) si deduce inosservanza di norme processuali (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) in relazione all’art. 267 c.p.p.) con riferimento alla mancata motivazione sia dei decreti di convalida che di quelli di urgenza e di proroga delle intercettazioni.
2.2. OMISSIS affida il gravame a sei motivi con i quali deduce:
1) l’erronea applicazione legge penale (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74).
Si assume che la Corte territoriale ha ritenuto di dover qualificare la condotta della ricorrente quale contributo rilevante alla configurazione del reato di associazione finalizzata al traffico illecito di stupefacenti, senza considerare che le acquisizioni processuali dovevano essere rapportate alla particolare situazione personale vissuta dalla OMISSIS che si era trovata coinvolta, nei fatti oggetto del presente procedimento, dopo aver conosciuto OMISSIS (mente dell’organizzazione criminale) all’inizio del 2001. Legatasi sentimentalmente a quest’ultimo ed indotta a consumare cocaina, la ricorrente solo occasionalmente avrebbe prestato la propria assistenza alle attività dell’ OMISSIS senza avere consapevolezza della direzione finalistica della propria condotta (primo motivo);
2) la violazione di legge e la mancanza della motivazione in merito alla sussistenza del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74).
Si assume che la sentenza impugnata è carente di motivazione per avere, al più, argomentato in ordine alla sussistenza di singoli reati ex D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, in concorso tra vari correi, senza specificare nel dettaglio le ragioni della sussistenza del reato associativo (secondo motivo);
3) la violazione di legge nonchè la mancanza e la contraddittorietà della motivazione in relazione alla sussistenza della responsabilità per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione al cit. D.P.R., art. 74), avendo la Corte territoriale omesso di considerare che la dimostrazione della mancata conoscenza della disponibilità da parte dell’ OMISSIS di altra abitazione costituisse formidabile riscontro all’insussistenza della consapevolezza da parte della ricorrente sia dell’esistenza di un gruppo organizzato ruotante intorno al convivente e sia di farne parte contribuendo con la propria condotta, unitamente a quella degli altri, al conseguimento dei fini del sodalizio (terzo motivo);
4) la mancanza di motivazione (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in relazione all’art. 125 c.p.p., comma 3) per omessa valutazione delle doglianze proposte con l’atto di appello, essendosi la Corte territoriale limitata ad una valutazione solo globale di esse (quarto motivo);
5) l’erronea applicazione legge penale (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione al cit. D.P.R., art. 73, comma 5) con riferimento al mancato riconoscimento della fattispecie prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, essendo evidente la natura lieve delle condotte poste in essere dalla ricorrente, circostanza che non può essere negata sulla base della semplice “contiguità” con l’attività criminosa propria del promotore dell’associazione (quinto motivo);
6) la mancanza di motivazione sulla dosimetria della pena e sull’attenuante della minima partecipazione (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in relazione all’art. 133 c.p. e all’art. 114 c.p.).
2.3. OMISSIS e OMISSIS affidano il gravame a tre motivi, in parte tra loro sovrapponibili, due dei quali comuni a quelli proposti da OMISSIS ed uno comune alle doglianze avanzate da OMISSIS con i quali deducono:
1) la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), per mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione e per travisamento delle risultanze probatorie risultando il vizio dal testo del provvedimento impugnato e dagli atti e dai verbali di prova specificamente richiamati e trascritti nei ricorsi (motivo comune a OMISSIS).
Si assume che la prova della responsabilità in ordine alla partecipazione al reato associativo sarebbe fondata sulle comunicazioni intercettate le quali darebbero conto, da un lato, del diretto coinvolgimento dei ricorrenti in plurimi episodi di importazione, acquisto e cessione di sostanze stupefacenti e, dall’altro, della consapevolezza di detta partecipazione desunta dalle condotte comprovanti un concreto contributo al perseguimento degli interessi comuni verso un gruppo concretamente strutturato, della cui esistenza essi erano del tutto consapevoli.
2) la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), (motivo comune a B. e alla S.) per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in riferimento alla pronuncia di responsabilità per il reato di cui al cit. D.P.R., art. 73, così come si evince dal testo del provvedimento impugnato.
Si assume che il reato associativo, sussistendone tutti gli elementi, può essere contestato indipendentemente dall’accertamento della commissione dei reati fine, cosicchè, per giungere ad una pronuncia di responsabilità in riferimento al reato di cessione di sostanze stupefacenti, occorre accertare il fatto di reato così come storicamente verificatosi, hic et nunc, senza che sia possibile cioè, come invece è avvenuto nel caso di specie, affermare semplicemente che dalla scheda personale dei singoli ricorrenti siano emersi plurimi e reiterati contatti tra taluni ricorrenti.
Per quest’ultima, si solleva un problema di concreta offensività della condotta posto che lo stupefacente sarebbe risultato di pessima qualità come emerge dalle intercettazioni stesse.
Non è dato comprendere, poi, quali episodi sussumibili nella fattispecie incriminatrice di cui al cit. D.P.R., art. 73 vengano in concreto contesti M con conseguente ed evidente compromissione del diritto di difesa.
3) la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in riferimento alla mancata concessione dell’attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 7, così come si evince dal testo del provvedimento impugnato, sul rilievo che, grazie alle dichiarazioni auto ed etero accusatorie, è stato possibile interrompere non tanto il traffico delle singole partite di droga ma l’intera attività di spaccio attribuibile ai presunti sodali evitando che il reato fosse portato ad ulteriori conseguenze.
La OMISSIS, con terzo motivo di gravame, lamenta anche la mancanza di motivazione sul rilievo che, sulla base delle risultanze comunque discutibili delle intercettazioni, i singoli acquisti dovevano essere ricondotti all’uso di gruppo e non al fine di spaccio.
2.4. OMISSIS affida il gravame ad un unico motivo con il quale deduce l’inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale e, segnatamente del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), sul rilievo che, con riferimento al caso di specie, è certamente mancante in seno all’ OMISSIS il requisito dell’affectio societatis.
Il ricorrente presenta inoltre due motivi nuovi con i quali deduce la mancanza di un contatto organico con l’ OMISSIS e denuncia la violazione di legge per avere la Corte omesso di precisare le condotte espressive del ruolo di partecipe in ordine al quale non sarebbe stata individuata alcuna specificità del ricorrente all’interno del sodalizio (primo motivo nuovo).
Con il secondo motivo nuovo, deduce l’inutilizzabilità delle intercettazioni.
1. Il ricorso è fondato nei limiti e sulla base delle considerazioni che seguono.
2. E’ preliminare, alla soluzione delle questioni di merito, lo scrutinio della prospettata eccezione di inutilizzabilità delle intercettazioni per avere i Giudici dei primo e di secondo grado fondato il proprio convincimento sugli esiti delle comunicazioni intercettate, precisando come nella ricostruzione della vicenda le indagini avessero preso le mosse dalla figura di OMISSIS.
OMISSIS, soggetto che non risultava disporre di lecite fonti di reddito e che appariva alla costante ricerca di sostanza stupefacente, nei cui confronti erano state perciò disposte operazioni di intercettazione telefonica che avevano consentito di monitorare i suoi contatti. Era emerso, tra l’altro, come OMISSIS fosse uno stabile punto di riferimento di un gruppo di soggetti dediti all’acquisto ed alla cessione di sostanza stupefacente, essendo ciò risultato proprio dal monitoraggio dei suoi contatti che consentivano, di volta in volta, di individuare i soggetti che colloquiavano con lui, di sequestrare diversi quantitativi di sostanza stupefacente e di verificare l’esistenza di una sorta di struttura associativa a “grappolo” costituita da gruppi di soggetti tutti in qualche modo a lui legati.
2.1. Sul punto, va in primo luogo risolta la questione circa la proponibilità dell’eccezione, posto che i ricorrenti hanno chiesto di essere giudicati nelle forme del rito abbreviato, e della sua rilevabilità nel giudizio di cassazione, posto che detta eccezione non risulta essere stata oggetto di specifica doglianza con i motivi di appello.
Tenuto conto dei correttivi apportati al giudizio abbreviato dalla L. 16 dicembre 1999, n. 479 e dei principi espressi dalle Sezioni Unite Tammaro (Sez. U, n. 16 del 21/06/2000), il giudizio abbreviato si configura come negozio giuridico processuale di tipo potestativo – abdicativo a mezzo del quale l’imputato – cui esclusivamente spetta il potere di esercitare la manifestazione di volontà di accesso al rito speciale nella forma “secca” o “condizionata”, fatta salva la prerogativa del giudice di disporre in caso di necessità un’integrazione probatoria – accetta che la regiudicanda sia definita all’udienza preliminare alla stregua degli atti d’indagine già acquisiti.
Da ciò consegue che il negozio processuale può avere ad oggetto esclusivamente i poteri che rientrano nella sfera di disponibilità degli interessati, ma resta privo di negativa incidenza sul potere- dovere del giudice di essere anche in quel giudizio garante della legalità del procedimento probatorio sicchè è stato chiarito (Sez. U, n. 16 del 21/06/2000, Tammaro, Rv. 216246) come, nel giudizio abbreviato, non rilevi “l’inutilizzabilità cosiddetta “fisiologica” della prova, funzionale cioè ai peculiari connotati del processo accusatorio in forza dei quali il giudice non può utilizzare ai fini della deliberazione prove, pure assunte secundum legem, ma diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento secondo l’art. 526 c.p.p., con i correlati divieti di lettura di cui all’art. 514 c.p.p..
In tal caso il vizio-sanzione dell’atto probatorio è neutralizzato dalla scelta negoziale dell’imputato, di tipo abdicativo, che fa assurgere a dignità di prova gli atti d’indagine compiuti senza le forme del contraddittorio dibattimentale, così paralizzando l’operatività dell’ordinario regime d’impermeabilità della fase dibattimentale agli elementi di prova raccolti nella fase procedimentale delle indagini preliminari.
E parimenti non rilevano nel rito alternativo le ipotesi d’inutilizzabilità “relativa” stabilite dal legislatore in via esclusiva “nel dibattimento”, quali, ad esempio, quelle previste dall’art. 350 c.p.p., comma 7 per le dichiarazioni spontanee rese alla p.g. dall’indagato (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 4, 31.1.1997, Pedullà, rv. 207872; Sez. 4, 19 novembre 1996, Menconi, rv. 207147), dall’art. 360 c.p.p., comma 5 per l’accertamento tecnico non ripetibile eseguito dal p.m. in difetto delle condizioni indicate e dall’art. 403 c.p.p., comma 1 per l’incidente probatorio cui non abbia partecipato il difensore dell’imputato. Deve al contrario attribuirsi piena rilevanza nel giudizio abbreviato alla categoria sanzionatoria della inutilizzabilità cosiddetta “patologica”, inerente cioè agli atti probatori assunti contra legem, il cui impiego è vietato in modo assoluto non solo nel dibattimento ma in qualsiasi altra fase del procedimento, ivi comprese le indagini preliminari, l’udienza preliminare, le procedure incidentali cautelari e quelle negoziali di merito. Nell’affermare esplicitamente questo principio in riferimento ad alcune situazioni (Cass., Sez. Un., 13.7.1998, Gallieri, e Sez. Un., 23.2.2000, D’Amuri, in tema di tabulati telefonici; Sez. Un., 25.3.1998, D’Abramo, e Sez. Un., 25.3.1998, Savino, sulle modalità di documentazione dell’interrogatorio di persona in stato di detenzione; Sez. Un., 20.11.1996, Glicora, e Sez. Un., 27.3.1996, Monteleone, sulle conseguenze della mancata allegazione al g.i.p. o al tribunale della libertà dei decreti autorizzativi di intercettazioni telefoniche, ai fini della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza; Sez. Un., 27.3.1996, Sala, sulla perquisizione invalida e sul conseguente sequestro di corpo del reato o di cose pertinenti al reato)”, le Sezioni Unite hanno peraltro sottolineato come nel descritto fenomeno rientrano tanto le prove oggettivamente vietate quanto le prove comunque formate o acquisite in violazione – o con modalità lesive – dei diritti fondamentali della persona tutelati dalla Costituzione e, perciò, assoluti e irrinunciabili, a prescindere dall’esistenza di un espresso o tacito divieto al loro impiego nel procedimento contenuto nella legge processuale (C. cost., n. 34 del 1973)”.
In presenza perciò di una fattispecie rientrante nella tipologia dell’inutilizzabilità patologica, la disciplina normativa costruisce il divieto di utilizzazione della prova in termini di operatività assoluta, con la conseguenza che “l’inosservanza del divieto non è affatto sanabile in virtù della mera richiesta dell’imputato di accesso al rito alternativo ed è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento a norma dell’art. 191 c.p.p.; costituisce, come error in procedendo, motivo autonomo e autosufficiente di censura della decisione mediante il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. c), proponibile anche in via immediata ex art. 569 c.p.p., comma 3; può essere rilevato dal giudice di legittimità oltre il devolutum a norma dell’art. 609 c.p.p., comma 2 e addirittura nel giudizio di rinvio dopo annullamento ex art. 627 c.p.p., comma 4, a differenza della nullità anche assoluta e dell’inammissibilità, beninteso salvo che sul punto non si sia formato il giudicato parziale secondo il disposto dell’art. 624 c.p.p., comma 1” (Sez. U, n. 16 del 21/06/2000, Tammaro, non massimata sul punto).
Nel pervenire a tale conclusione, le Sezioni Unite hanno coerentemente valorizzato il principio di legalità della prova, “intesa come risultato conoscitivo che il giudice, dopo avere selezionato i dati acquisiti secondo le regole del procedimento probatorio, pone, con determinante efficacia dimostrativa nel ragionamento giudiziale, a fondamento della decisione, sia essa la pronuncia conclusiva del dibattimento o quella che definisce il procedimento speciale ovvero anche quella incidentale in tema di libertà personale”, non avendo mancato di sottolineare che i termini del problema circa gli effetti pregiudizievoli dell’accertata invalidità o inutilizzabilità del materiale probatorio si presentano in termini assai meno rigidi rispetto alla previgente disciplina in quanto, a seguito delle profonde innovazioni normative apportate all’istituto dalla L. n. 479 del 1999, artt. 27 e 31, la definibilità del processo allo stato degli atti, da un lato, non si configura più come condizione di ammissibilità della richiesta e, dall’altro, il giudice – pur dovendo decidere nel merito senza tenere conto del materiale probatorio affetto dal rilevato vizio di nullità o di inutilizzabilità, il che impone al giudice stesso di valutare attentamente, in prima battuta e a prescindere dai rilievi di parte, la sussistenza di cause di nullità assoluta degli atti o d’inutilizzabilità patologica – ha comunque il potere di assumere anche d’ufficio gli elementi necessari ai fini della decisione nelle forme previste dall’art. 422 c.p.p., posto che il modulo dell’integrazione probatoria officiosa, in caso d’indecidibilità allo stato degli atti, è infatti espressamente contemplato dall’art. 441 c.p.p., comma 5, come sostituito dalla L. n. 479 del 1999, art. 29.
Alla stregua delle precedenti considerazioni, va pertanto affermato il principio di diritto in base al quale, siccome l’accesso al giudizio abbreviato non esplica alcuna efficacia sanante rispetto alla sussistenza di cause d’inutilizzabilità cosiddetta patologica, la definizione della regiudicanda con il rito abbreviato non comporta effetti preclusivi alla rilevabilità di tali cause, con la conseguenza che 1) le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate, 2) l’inosservanza del divieto è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento a norma dell’art. 191 c.p.p., comma 2, 3) il vizio può eccepito dalle parti, per la prima volta, nel giudizio di cassazione e 4) può essere rilevato anche dal giudice di legittimità oltre il devolutum a norma dell’art. 609 c.p.p., comma 2.
2.2. Ciò posto, i ricorrenti si sono doluti del fatto che i decreti di convalida delle intercettazioni disposte in via d’urgenza dal pubblico ministero ed i conseguenti decreti di proroga delle stesse sarebbero stati emessi in assoluta carenza di motivazione derivando da ciò l’inutilizzabilità dei relativi i risultati.
Il rilievo, quantunque supportato con argomentazioni in diritto non pienamente condivisibili, è sostanzialmente corretto.
Le Sezioni Unite Primavera hanno affermato che la mancanza di motivazione dei decreti che autorizzano o prorogano le operazioni di intercettazioni telefoniche o tra presenti, di quelli che convalidano i decreti emessi in caso d’urgenza dal pubblico ministero, nonchè di questi ultimi, comporta l’inutilizzabilità dei risultati delle operazioni captative, chiarendo che si ha mancanza della motivazione non solo quando l’apparato giustificativo manchi in senso fisico- testuale, ma anche quando la motivazione sia apparente, semplicemente ripetitiva della formula normativa, del tutto incongrua rispetto al provvedimento che dovrebbe giustificare; mentre si ha difetto della motivazione – emendabile dal giudice cui la doglianza venga prospettata, sia esso il giudice del merito che deve utilizzare i risultati delle intercettazioni, sia esso quello dell’impugnazione nella fase di merito o in quella di legittimità – allorchè quest’ultima sia incompleta, insufficiente, non perfettamente adeguata, affetta da vizi che non negano, nè compromettono la giustificazione, ma la rendono soltanto non puntuale (Sez. U, n. 17 del 21/06/2000, Primavera ed altri, Rv. 216665).
Con tale arresto le Sezioni Unite hanno, da un lato, superato e, dall’altro, meglio definito il principio di diritto affermato, in maniera invero troppo categorica a fronte del rinvio che l’art. 271 c.p.p. formula nella sua interezza rispetto alla disposizione ex art. 267 c.p.p., dalle Sezioni Unite Manno secondo il quale, in materia di intercettazioni telefoniche, l’inutilizzabilità va riferita solo alla violazione delle norme dell’art. 267 c.p.p. e art. 268 c.p.p., commi 1 e 3, mentre le eventuali illegittimità formali (come quelle relative a violazione delle altre previsioni del citato art. 268 o alla mancata motivazione del decreto autorizzativo) ne determinano, semmai, l’invalidità (Sez. U, n. 11 del 25/03/1998, Manno ed altro, Rv. 210610).
Peraltro – sebbene l’art. 125 c.p.p., comma 3, prescriva che i decreti siano motivati a pena di nullità nei casi in cui, come nella specie, la motivazione sia espressamente prescritta dalla legge – l’art. 271 c.p.p., comma 1, – nel tipizzare i divieti di utilizzazione stabilendo che non possono essere utilizzati, tra l’altro, i risultati delle intercettazioni conseguiti con l’inosservanza delle disposizioni previste dall’art. 267 c.p.p. costituisce disposizione speciale rispetto all’art. 125 c.p.p., comma 3, prevalendo pertanto su quest’ultima.
Va poi ricordato come, sin dagli inizi degli anni settanta, la Corte costituzionale abbia precisato che il decreto con cui il giudice autorizza l’intercettazione telefonica deve contenere una adeguata e specifica motivazione a concreta dimostrazione del corretto uso del potere dal giudice esercitato (Corte cost. sent. 04/04/1973, n. 34, n. mass. 0006607), con la conseguenza che, in una materia che incide sui diritti fondamentali della persona, un provvedimento giurisdizionale privo di motivazione in senso grafico o con motivazione apparente configura una sorta di “antigiuridicità processuale” della prova dalla quale inevitabilmente scaturisce l’inutilizzabilità dei risultati conseguiti attraverso l’inosservanza delle disposizioni richieste dalla legge per la corretta formazione del procedimento probatorio.
Nel caso di specie, come è emerso dagli atti allegati dai ricorrenti ai motivi di gravame, i decreti di convalida delle intercettazioni (n. 54/02 del 15/02/2002; 87/02 del 30/03/2002; n. 136/03 del 26/03/2003; n. 125/02 del 12/04/2002; n. 126/02 del 12/04/2002) sono stati redatti su moduli prestampati nei quali risultano compilati a penna i riferimenti al numero del procedimento e dei decreti, il nome del giudice, la data in cui il pubblico ministero ha emesso il decreto d’urgenza da convalidare, il numero dell’utenza interessata e il nome dell’usuario di essa, risolvendosi la motivazione in mera una formula di stile, utilizzabile per qualsiasi atto da convalidare del seguente letterale tenore: “ritenuto che ricorrono i gravi indizi di reato evidenziati nella richiesta di P.G. e legittimanti l’intercettazione telefonica; essa è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini; ogni ritardo nel disporre ed effettuare il controllo potrebbero arrecare grave pregiudizio alle indagini; i termini prescritti dall’art. 267 c.p.p., comma 2, e le altre modalità imposte dallo stesso articolo sono stati rispettati”.
Allo stesso modo, su moduli prestampati risultano redatti i decreti di proroga delle intercettazioni (n. 54/02 del 2/03/2002; n. 87/02; n. 126/02 del 24/04/2002; n. 125/02 del 24/04/2002; n. 126/02 del 09/05/2002; n. 126/02 del 21/05/2002; n. 125/02 del 21/05/2002; n. 126/02 del 24/06/2002; n. 126/02 del 07/06/2002; n. 125/02 del 07/06/2002) nei quali risultano compilati a penna i riferimenti al numero del procedimento e dei decreti, il nome del giudice, la data in cui il pubblico ministero ha richiesto la proroga delle intercettazioni, il numero dell’utenza interessata, il nome dell’usuario di essa e la durata della proroga, risolvendosi la motivazione in mera una formula di stile, utilizzabile per qualsiasi atto da prorogare del seguente testuale tenore: “ritenuto che permangono tuttora i gravi motivi per i quali l’intercettazione è stata richiesta” disposta e/o convalidata.
E’ di tutta evidenza come, nel caso di specie, la motivazione sia del tutto apparente non essendo possibile dedurre dalla lettura del provvedimento l’iter cognitivo e valutativo seguito dal giudice per la delibazione della richiesta, in quanto la motivazione si è risolta nella mera ripetizione della formula normativa ed essa appare ampiamente incongrua rispetto al provvedimento che dovrebbe giustificare, neppure richiamato per relationem e, quanto al mero riferimento alla richiesta di P.G. contenuto nei provvedimenti di convalida delle intercettazioni, il provvedimento de quo, proprio perchè meramente ripetitivo della formula di legge, è assolutamente privo della dimostrazione che il giudice abbia preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione.
Sebbene, ai fini dell’assolvimento dell’obbligo di motivazione, è sufficiente per i provvedimenti di proroga delle intercettazioni che essi possano scontare un minore impegno motivazionale quanto ai presupposti, se accertati come ancora sussistenti, occorre ricordare che detti provvedimenti devono ugualmente dar conto della ragione di persistenza dell’esigenza captativa (Sez. U, n. 17 del 21/06/2000, Primavera ed altri, Rv. 216664) mentre, nel caso di specie, non vi è alcun riferimento nè per relationem, nè per minimo accenno, neppure contenuto nelle richieste del pubblico ministero di proroga delle intercettazioni, alle ragioni (conversazioni captate, atti di indagine medio tempore espletati) giustificative della perdurante limitazione del diritto alla libertà ed alla riservatezza delle comunicazioni.
Da ciò consegue l’inutilizzabilità dei risultati probatori conseguiti con le intercettazioni disposte, convalidate e prorogate con i decreti suindicati.
3. Sebbene la sollevata doglianza si risolva nella denuncia di un error in procedendo che abilita la Corte di cassazione, in quanto giudice anche del fatto, ad accedere direttamente agli atti del processo per risolvere la relativa questione, va riaffermato il principio che, in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile l’impugnazione nella quale sia stato eccepito un “error in procedendo”, senza peraltro indicare lo specifico atto da esaminare e sul quale compiere la verifica richiesta (Sez. 6, n. 10373 del 16/01/2002, Gionta ed altri, Rv. 221352), con la conseguenza che è onere della parte, che lamenti l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, indicare specificamente l’atto asseritamente affetto dal vizio denunciato e curare che lo stesso sia comunque effettivamente acquisito al fascicolo trasmesso al giudice di legittimità, anche provvedendo a produrlo in copia nel giudizio per cassazione (Sez. 2, n. 24925 del 11/04/2013, Cavaliere ed altri, Rv.256540).
Ne consegue che, laddove siffatto onere è stato assolto con i motivi di gravame o con i motivi nuovi, la Corte ha potuto compiere la verifica richiesta e delibare sull’eccezione nei sensi precisati al punto sub 2.2. del considerato in diritto.
4. Nella ritenuta ed assorbente loro decisività, la sentenza impugnata si è soffermata in misura preponderante e talora esclusiva sugli esiti captativi in questione e tuttavia ha richiamato per alcuni ricorrenti altri elementi di prova, dovendosi anche considerare che, allo stato, non tutti i risultati delle intercettazioni risultano falcidiati dalla causa di inutilizzabilità rilevata.
Su tale ultimo aspetto e pur in presenza di un maggioritario indirizzo di legittimità in senso contrario (Sez. 5, n. 10624 del 12/02/2009, Barbara ed altri, Rv. 242980; Sez. 1, n. 1988 del 22/12/1997, dep. 18/02/1998, P.M. e Nikolic e altri, Rv. 209843), deve ritenersi che, a differenza della nullità anche assoluta e dell’inammissibilità, il vizio dell’inutilizzabilità patologica può essere rilevato anche nel giudizio di rinvio dopo annullamento ex art. 627 c.p.p., comma 4, salvo che sul punto non si sia formato il giudicato parziale secondo il disposto dell’art. 624 c.p.p., comma 1, (Sez. U, n. 16 del 21/06/2000, dep. 30/06/2000, Tammaro, non massimata sul punto), dovendosi prendere atto del dato non trascurabile in base al quale l’inutilizzabilita non è richiamata e disciplinata dall’art. 627 c.p.p., comma 4.
L’art. 544 c.p.p., comma 3, del 1930 conteneva una disposizione pressochè analoga ma essa richiamava esclusivamente la disciplina della nullità mentre il codice di rito vigente ha esteso la previgente disciplina alle cause di inammissibilità non menzionando l’inutilizzabilità.
Non è poi irrilevante differenziare l’inutilizzabilità fisiologica da quella patologica sul rilievo che il primo tipo d’inutilizzabilità, per le indiscutibili analogie con le cause di invalidità, si atteggia a poter essere pienamente parificata al trattamento riservato nell’art. 627 c.p.p., comma 4, alle nullità, a differenza dell’inutilizzabilità patologica.
Ciò significa che le cause d’inutilizzabilità fisiologica e relativa partecipano al medesimo trattamento riservato dall’art. 627 c.p.p., comma 4, alla nullità e all’inammissibilità, essendo coperte dal giudicato parziale quale conseguenza della formazione progressiva del giudicato formatosi sulle parti che non hanno connessione essenziale con la parte annullata ed essendo comunque coperte dalla preclusione scaturente dal giudicato implicito negli altri casi, laddove le cause d’inutilizzabilità patologica soccombono rispetto al giudicato parziale ma resistono al regime preclusioni sottraendosi, per tale parte, alla disciplina dettata dall’art. 627 c.p.p., comma 4, e potendo perciò essere rilevate anche nel giudizio di rinvio.
5. Inutilizzabili i decreti di convalida e di proroga delle intercettazioni (specificamente indicati al punto sub 2.2. del considerato in diritto), la sentenza impugnata va pertanto annullata con rinvio alla Corte di appello di Firenze nei confronti di tutti i suindicati imputati, con assorbimento, allo stato, degli altri motivi di ricorso proposti, dovendosi riesaminare nella competente sede di merito se sussistano o meno altri e diversi elementi di prova utilmente utilizzabili per la eventuale affermazione di responsabilità (la c.d. “prova di resistenza”), non essendo praticabile tale ricognizione, propriamente di merito, in sede di legittimità.
P.Q.M.
annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Firenze.