IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CORTESE Arturo – Presidente –
Dott. CAVALLO Aldo – Consigliere –
Dott. CAPRIOGLIO Piera M. S. – Consigliere –
Dott. SANDRINI Enrico G. – Consigliere –
Dott. BONI Monica – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sul ricorso proposto da:
OMISSIS parte offesa;
nel procedimento c/:
OMISSIS;
avverso l’ordinanza n. 1503/2012 GIP TRIBUNALE di GORIZIA, del 18/10/2012 sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. MONICA BONI;
lette le conclusioni del PG Dott. FODARONI Giuseppina la quale ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
1. Con provvedimento reso il 18 ottobre 2012 il G.I.P. del Tribunale di Gorizia respingeva l’opposizione proposta da OMISSIS avverso la richiesta di archiviazione, presentata dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Gorizia del procedimento penale a carico di OMISSIS in ordine al reato di cui all’art. 595 cod. pen., comma 3, e ne disponeva l’archiviazione.
1.1 A fondamento della decisione il primo Giudice rilevava che dalle disposte indagini era emerso come il OMISSIS, – nominato consulente tecnico d’ufficio dal giudice civile del Tribunale di Gorizia al fine dell’espletamento di un accertamento tecnico preventivo su ricorso, proposto dal Comune di Cormons nei riguardi di OMISSIS, avesse espletato l’incarico e riferito nella sua relazione dell’esistenza di numerose significative discordanze tra le previsioni progettuali e la realizzazione pratica dei lavori, imputabili anche all’assenza di controllo costante ed assiduo da parte della Direzione dei lavori, il tutto sulla base di valutazioni tecniche, espresse in modo pertinente e con toni contenuti, nell’ambito del compito assegnatogli, per cui, anche a voler ritenere diffamatorie tali espressioni, le stesse erano giustificate dalla necessità di adempiere ad un dovere d’ufficio ai sensi dell’art. 51 cod. pen..
2. Avverso detto decreto ha proposto ricorso per cassazione il querelante OMISSIS a mezzo del proprio difensore, il quale ha dedotto inosservanza o erronea applicazione delle norme processuali stabilite a pena di nullità in relazione al disposto degli artt. 109 e 127 cod. proc. pen. per la mancata traduzione degli atti processuali in lingua slovena, nonostante la sua appartenenza alla minoranza linguistica slovena, il che gli conferiva il diritto di ottenere la traduzione di tutti gli atti del processo.
3. Con requisitoria scritta pervenuta in data 9 settembre 2013 il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, dr. Giuseppina Foderoni, ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
Il ricorso è infondato e non merita accoglimento.
1. La presunta violazione delle norme processuali e sostanziali, denunciata dal ricorrente, per essere stati redatti in lingua italiana, non tradotta nello sloveno, tutti gli atti del procedimento scaturito dalla proposizione della querela contro l’indagato, sebbene egli appartenesse alla minoranza linguistica slovena della regione Friuli-Venezia Giulia, oggetto di espresso riconoscimento legislativo, non sussiste. Invero, la questione è stata dedotta sulla base del solo presupposto dell’appartenenza del ricorrente a tale gruppo linguistico e della ammissione della lingua slovena a tutela da parte delle disposizioni della Regione ove è insediata la relativa minoranza etnica che ne fa uso e delle norme statali, profilo fattuale in sè insufficiente ad attivare le garanzie invocate.
1.1 Al riguardo, va in primo luogo operata una ricognizione delle fonti normative e dei principi costituzionali, che offrono la disciplina della tutela riconosciuta alla minoranza di lingua slovena nei rapporti con la pubblica amministrazione e l’autorità giudiziaria nei procedimenti celebrati nei territori ove la stessa è insediata.
1.1.1 Oltre all’art. 6 Cost., che assicura la tutela delle minoranze linguistiche mediante “apposite norme” di legge, cui rinvia per l’apprestamento dei concreti strumenti di protezione, ed a quanto prescritto dall’art. 3 dello Statuto speciale per il Friuli-Venezia Giulia, secondo il quale “nella Regione è riconosciuta parità di diritti e di trattamento a tutti i cittadini, qualunque sia il gruppo linguistico al quale appartengono, con la salvaguardia delle rispettive caratteristiche etniche e culturali”, il primo strumento normativo ad introdurre una specifica disciplina, direttamente applicabile nell’ordinamento processuale a favore dell’utilizzo della lingua madre da parte degli appartenenti alla comunità slovena, è il Trattato di Osimo, recepito nella L. n. 73 del 1977, il cui art. 8, richiamando lo “Statuto speciale” di Londra del 1954, riconosce a tale minoranza: a) la libertà di usare la propria lingua nei rapporti personali e ufficiali con le autorità giudiziarie; b) il diritto di ricevere risposta nella stessa lingua, nel senso che nelle espressioni verbali, il suo uso può avvenire direttamente o con l’ausilio di un interprete, mentre nella corrispondenza si procede alla traduzione delle risposte; c) la facoltà di richiedere che le sentenze dei tribunali, riguardanti appartenenti alla comunità linguistica, siano accompagnate da una traduzione.
1.1.2 Indicazioni conformi contengono le L. n. 482 del 1999 e L. n. 38 del 2001, recanti norme a tutela dei diritti delle minoranze riconosciute e la seconda dei diritti della minoranza slovena nel Friuli-Venezia Giulia; in particolare, la L. n. 482 del 1999, art. 2 riconosce lo sloveno fra le lingue delle minoranze storiche ammesse a tutela da parte della Repubblica, mentre la L. n. 38 del 2001, art. 8 stabilisce il diritto della predetta minoranza all’uso della lingua madre nei rapporti con le autorità amministrative e giudiziarie locali, mediante l’utilizzo diretto nelle comunicazioni verbali, oppure per il tramite di interprete, nella corrispondenza con almeno la traduzione allegata al testo redatto in lingua italiana, senza condizionare l’effettiva applicazione di tali disposizioni al requisito della mancata conoscenza di tale idioma.
1.2 Anche la Corte Costituzionale ha avuto modo di pronunciarsi sul tema delle garanzie poste a tutela della minoranza slovena. Con la sentenza n. 28 del 1982 ha affermato che la soglia di tutela minima riconosciutale si traduce, da un lato nell’inammissibilità di qualsiasi sanzione che colpisca l’uso della propria lingua da parte degli appartenenti alla comunità protetta, dall’altro nell’attribuzione del diritto di fare uso della lingua materna e di ricevere risposte dalle autorità pubbliche in tale idioma, facoltà meglio specificata nella successiva pronuncia n. 62 del 1992. La Consulta, in relazione ad un procedimento di opposizione a ordinanza- ingiunzione ai sensi della L. n. 689 del 1981, artt. 22 e 23 ha affermato che il “nucleo minimale di tutela per gli appartenenti alla minoranza riconosciuta” comprende “il diritto di usare la lingua materna nei rapporti con le autorità giurisdizionali e di ricevere risposte da quelle autorità nella stessa lingua”, con la possibilità “di usare, a … richiesta, la lingua materna nei propri atti, usufruendo per questi della traduzione nella lingua ufficiale, oltre che di ricevere in traduzione nella propria lingua gli atti dell’autorità giudiziaria e le risposte della controparte”.
E’ però con la sentenza n. 15 del 1996 che la Corte Costituzionale ha chiarito i limiti e le rispettive finalità delle disposizioni costituzionali e statutarie rispetto a quelle processuali, riguardanti i diritti delle minoranze linguistiche riconosciute; ha negato che le prime possano esplicare un intervento innovativo rispetto alle norme sulle forme degli atti processuali, stabilite nei relativi ordinamenti, in quanto “l’art. 6 Cost. e le altre norme che si pongono a tutela delle minoranze linguistiche, da un lato, e l’art. 24 Cost., dall’altro, hanno ambiti di applicazione diversi”.
Mentre la mancata o inadeguata conoscenza della lingua italiana, che è quella ufficiale di redazione degli atti del processo, si traduce in una menomazione dei diritti della difesa in giudizio della parte per la compromessa capacità di comprensione di quanto affermato dalle altre parti e di quanto statuito dall’autorità decidente, inconveniente superabile con la previsione del diritto all’assistenza di interprete e di traduzione nella lingua madre, l’accordata possibilità legale di fare uso di tale idioma a favore dell’appartenente a una minoranza linguistica, ammessa a speciale protezione costituzionale, consegue alla tutela accordata al patrimonio culturale di un particolare gruppo etnico, per cui non dipende ed anzi prescinde dalla circostanza dell’effettiva o meno conoscenza della lingua ufficiale da parte del componente di quel gruppo. Pertanto, nei soli casi in cui l’appartenente alla minoranza linguistica non conosca gli atti redatti nell’idioma ufficiale, allora potrà porsi una questione di invalidità degli atti processuali per violazione del diritto di azione e di difesa in giudizio e quindi anche di nullità degli atti stessi, rimasti incompresi e quindi inidonei a sortire gli effetti perseguiti.
1.3 Per quanto riguarda più specificamente l’ordinamento processuale penale, l’art. 109, precisato al comma 1 che la lingua italiana è quella ufficiale nella quale devono essere redatti gli atti del processo, al secondo comma dispone che, se il giudizio si celebri in territorio ove è insediata una minoranza linguistica riconosciuta e con la partecipazione di un cittadino italiano, appartenente a detta minoranza, questi, a sua richiesta, potrà essere interrogato o esaminato nella madrelingua, nella quale dovrà redigersi anche il relativo verbale e gli atti del procedimento, successivi alla richiesta, dovranno essere tradotti nella stessa lingua. A rafforzare l’ambito della tutela riconosciuta, la norma, oltre a fare salvi altri eventuali diritti attribuiti da norme speciali o convenzioni internazionali, al terzo comma impone il rispetto a pena di nullità delle prescrizioni dalla stessa dettate. Anche tali prescrizioni non condizionano la loro applicazione al profilo della effettiva o meno comprensione della lingua italiana del cittadino alloglotta.
1.3.1 E’ però testualmente previsto dall’art. 109 cod. proc. pen. che l’attivazione dei diritti e delle garanzie, conferiti dalla stessa norma in via generale avvenga su richiesta dell’interessato;
ma analoga previsione deve operare anche per ottenere l’applicazione delle disposizioni previste per la minoranza slovena dalle norme statutarie della Regione Friuli Venezia-Giulia e da quelle delle L. n. 482 del 1999 e L. n. 38 del 2001.
E’ dunque il cittadino coinvolto nel procedimento davanti al giudice di merito che deve richiedere l’uso della sua lingua, oppure quanto meno segnalare la propria appartenenza al gruppo etnico-linguistico per renderne edotta l’autorità giudiziaria procedente e consentirle di disporre la formazione degli atti processuali nella lingua materna, se trattasi di verbali di interrogatorio di imputato o indagato, e la traduzione degli altri atti successivi. E’ necessario che intervenga l’attivazione della parte, la quale, affermando formalmente la propria origine, dimostri di volersi giovare di facoltà e delle forme di tutela del patrimonio culturale riconosciutele dall’ordinamento, non essendo imposto da alcuna norma di legge una verifica ufficiosa da parte del giudice in tal senso, nè potendo ritenersi sufficiente che il cognome della parte processuale indichi in sè il gruppo etnico diverso da quello italiano, elemento palesemente non significativo di un effettivo perdurante legame di appartenenza alla relativa comunità e del riconoscimento nelle sue tradizioni ed espressioni culturali.
1.3.2 Resta, invece, escluso che qualsiasi nullità sia ravvisabile negli atti riguardanti i procedimenti davanti alla Corte di Cassazione, dal momento che, sia l’art. 109 c.p.p., comma 2, cit., sia la norma di cui alla L. n. 38 del 2001, art. 8, comma 1, sia, infine, la disposizione di cui all’art. 5 dello Statuto Speciale allegato al Memorandum di Londra del 5/10/1954, nell’imporre l’uso della lingua slovena, fanno riferimento soltanto ai giudizi di primo e secondo grado, e non al giudizio di legittimità.
2. Ebbene, tutto ciò premesso, nel caso di specie è proprio la segnalazione della parte che è mancata. Il ricorrente si è costantemente espresso direttamente in lingua italiana in tutti gli atti di sua provenienza, sia personali, sia redatti dal suo difensore, compresa la denuncia da cui è scaturito il procedimento, non ha mai rappresentato di far parte della minoranza linguistica slovena insediata in Friuli Venezia-Giulia, nè ha mai richiesto di potersi esprimere in sloveno: in tal modo ha dimostrato con una condotta concludente ed univocamente significativa di non avere interesse a giovarsi della protezione culturale accordata al suo gruppo etnico. Del resto anche il ricorso per cassazione soltanto in modo generico sostiene che la richiesta sarebbe stata avanzata, ma non precisa in quali forme ed in quali sedi, mentre la disamina degli atti del procedimento, consentita a questo giudice di legittimità per la natura processuale della questione sollevata, dimostra esattamente il contrario.
2.1 In ogni caso, rileva questa Corte che, anche qualora si volesse ritenere che le garanzie della relativa minoranza debbano operare a prescindere dalla richiesta della parte interessata, soluzione palesemente illogica per quanto già detto, la difesa del P. non risulta avere mai sollevato alcuna eccezione di nullità, originata dalla mancata traduzione in sloveno degli atti processuali, nemmeno all’udienza fissata innanzi al G.I.P. per la trattazione dell’opposizione proposta alla richiesta di archiviazione del procedimento. Da ciò sarebbe comunque conseguita la sanatoria dell’eventuale nullità verificatasi per la violazione, in realtà in sè insussistente, delle prescrizioni dettate dall’art. 109 cod. proc. pen., trattandosi di nullità generale di tipo intermedio, soggetta al relativo regime previsto dalle disposizioni di cui agli artt. 181, 182 e 183 cod. proc. pen. e quindi anche a sanatoria, se non eccepita alla prima occasione processuale utile. (Cass. sez. 6, n. 1400 del 1999, Pahor, rv. 213326; sez. 6, n. 9075 del 15/02/2006, Primoz ed altro, rv. 233490; sez. 6, n. 30778 del 17/05/2012, Sancin, rv. 253366).
Per le ragioni esposte il ricorso è privo di fondamento e va, pertanto, respinto con la conseguente condanna del proponente al pagamento delle spese processuali.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.