Il possesso delle chiavi dell’immobile consegnate all’originario assegnatario non è circostanza da sola idonea ad escludere la sussistenza del reato – per difetto della condizione di arbitrarietà dell’occupazione – nel caso in cui la permanenza all’interno dell’alloggio è pacificamente avvenuta in assenza di qualsiasi titolo legittimante e in assenza di alcuna specificazione dei rapporti intercorrenti tra l’imputato e il precedente assegnatario.
(Cass. Sez. 2^ Pen. – sentenza 06-15/07/2020, n. 20940)
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[OMISSIS]
1.1 Con sentenza in data 26 giugno 2019, la corte di appello di Messina, confermava la pronuncia del tribunale monocratico di Messina datata 9 maggio 2018 che aveva condannato alle pene di legge Sa. Fa. perché colpevole del delitto di occupazione abusiva di un alloggio popolare.
1.2 Avverso detta sentenza proponeva ricorso per cassazione il difensore dell’imputato avv.to Gi. Ma. deducendo con distinti motivi:
– violazione ed erronea applicazione dell’art. 606 lett. e) cod.proc.pen., mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione posto che dalla ricostruzione dei fatti era emerso che il ricorrente aveva il possesso delle chiavi dell’abitazione sicché mancava il necessario presupposto dell’arbitraria introduzione nella stessa;
– violazione ed erronea applicazione dell’art. 606 lett. e) cod.proc.pen., in relazione all’art. 54 cod.pen. dovendosi ritenere che nel concetto di danno grave alla persona rientri anche la mancanza di un’abitazione essendo il diritto all’alloggio un bisogno primario della persona; nel caso di specie era mancata qualsiasi indagine sia al fine di verificare le condizioni di vita dell’imputato sia al fine di valutare la sussistenza dello stato di necessità;
– motivazione illogica e contraddittoria in relazione alla determinazione della pena;
– violazione di legge, erronea applicazione della legge penale ai sensi dell’art. 606 lett. b) cod.proc.pen. in relazione all’art. 131 bis cod.pen. poiché la corte territoriale avrebbe potuto concedere la causa di non punibilità.
Considerato in diritto
2.1 Tutti i motivi proposti sono manifestamente infondati ed il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile.
Invero, quanto alla prima doglianza, deve aderirsi all’orientamento giurisprudenziale secondo cui nel reato di invasione di terreni o edifici di cui all’art. 633 cod. pen. la nozione di “invasione” non si riferisce all’aspetto violento della condotta, che può anche mancare, ma al comportamento di colui che si introduce “arbitrariamente”, ossia “contra ius” in quanto privo del diritto d’accesso, cosicché la conseguente “occupazione” costituisce l’estrinsecazione materiale della condotta vietata e la finalità per la quale viene posta in essere l’abusiva invasione; nel caso in cui l’occupazione si protragga nel tempo, il delitto ha natura permanente e la permanenza cessa soltanto con l’allontanamento del soggetto o con la sentenza di condanna, dopo la quale la protrazione del comportamento illecito dà luogo ad una nuova ipotesi di reato che non necessita del requisito dell’invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell’occupazione (Sez. 2, n. 29657 del 27/03/2019, Rv. 277019; Sez. 2, n. 49169 del 27/11/2003, Rv. 227692). Tale orientamento conforme trova suo fondamento in quel precedente che ha approfondito l’individuazione dei caratteri oggettivi dell’invasione di edifici, affermando espressamente che l’arbitrarietà della condotta è ravvisabile in tutti i casi in cui l’ingresso nell’immobile o nel fondo altrui avvenga senza il consenso dell’avente diritto al possesso od alla detenzione ovvero, in mancanza di questo, senza la legittimazione conferita da una norma giuridica o da un’autorizzazione dell’autorità (Sez. 2, n. 8107 del 30/05/2000, Rv. 216525).
Ne consegue affermare che la circostanza del possesso delle chiavi dell’immobile consegnate all’originario assegnatario non è circostanza da sola idonea ad escludere la sussistenza del reato per difetto della condizione di arbitrarietà dell’occupazione posto che, la permanenza all’interno dell’alloggio, è pacificamente avvenuta in assenza di qualsiasi titolo legittimante.
Peraltro, nel caso di specie, va anche segnalato come a sostegno del primo motivo il ricorrente non abbia mai neppure specificato i rapporti che lo legavano al precedente assegnatario ovvero in virtù di quale accordo fosse venuto in possesso dell’immobile così che in ogni caso la condotta appare ugualmente connotata da arbitrarietà.
2.2 Quanto al secondo motivo, deve innanzi tutto essere ricordato che la parte che invoca la sussistenza di una scriminante ha l’obbligo di provare gli elementi costitutivi della stessa; e nel caso in esame il ricorrente non ha provato la sussistenza del pericolo di un danno grave alla persona tale da potere essere evitato soltanto attraverso l’occupazione di un alloggio popolare.
In ogni caso, vale quell’orientamento secondo cui in tema di illecita occupazione di un alloggio popolare, lo stato di necessità può essere invocato solo per un pericolo attuale e transitorio e non per sopperire alla necessità di trovare un alloggio al fine di risolvere in via definitiva la propria esigenza abitativa, tanto più che l’edilizia popolare è destinata a risolvere le esigenze abitative dei non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate (Sez. 2, n. 9655 del 16/01/2015, Rv. 263296); e l’applicazione di tale condivisibile principio comporta proprio dichiarare la manifesta non fondatezza del motivo posto che l’occupazione non risulta temporanea né il ricorrente ha provato di avere esperito rimedi alternativi per la soluzione della problematica della mancanza di alloggio.
2.3 Infine, quanto ai restanti motivi si osserva che:
– la pena appare essere stata determinata nella sola misura pecuniaria ed in forza di specifiche argomentazioni svolte dal giudice di appello prive di qualsiasi vizio;
– la causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis cod.pen. non risulta oggetto di richiesta con i motivi di appello e non può per la prima volta essere dedotta nel presente giudizio tanto più nel caso di specie ove si verte in ipotesi di reato permanente.
In conclusione, l’impugnazione deve ritenersi inammissibile a norma dell’art. 606 comma terzo cod.proc.pen.; alla relativa declaratoria consegue, per il disposto dell’art. 616 cod.proc.pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento in favore della Cassa delle ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 2.000,00.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende.
Sentenza a motivazione semplificata.