IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CORTESE Arturo – Presidente –
Dott. CAIAZZO Luigi – Consigliere –
Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –
Dott. ROCCHI Giacomo – rel. Consigliere –
Dott. BONI Monica – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sul ricorso proposto da:
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;
nei confronti di:
OMISSIS;
avverso l’ordinanza n. GIUD. SORVEGLIANZA di VENEZIA, del 06/02/2014;
sentita prelazione fatta dal Consigliere Dott. GIACOMO ROCCHI;
lette le conclusioni del PG Dott. Giovanni D’Angelo, che ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso.
1. Con ordinanza del 6/2/2014, il Magistrato di Sorveglianza di Venezia, all’esito della procedura prevista dall’art. 35 bis ord. pen., così come introdotto dal d.l. 146 del 2013, provvedendo sul reclamo avanzato da OMISSIS, rigettava l’istanza di assegnazione ad una cella avente uno spazio individuale di almeno 7 metri quadrati ma disponeva che il richiedente fosse collocato nell’attualità, ma anche nel prosieguo della detenzione, presso una stanza di pernottamento avente una superficie calpestabile media pro-capite non inferiore a 3 metri quadrati; rigettava nel resto il ricorso, ritenuto infondato.
Il detenuto aveva chiesto di essere assegnato ad una cella nella quale godere di uno spazio individuale di almeno 7 metri quadrati, con servizi igienici separati, e di essere autorizzato a permanere fuori dalla propria cella per almeno otto ore al giorno.
Il Magistrato riteneva infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale della nuova normativa sollevata dal Ministro della Giustizia; con riferimento alla questione dello spazio minimo riservato ad ogni detenuto – da interpretarsi come spazio minimo di fruibilità di una superficie collettivamente goduta, in caso di stanza di pernottamento a più posti, ovvero come spazio minimo vitale, nel caso di cella singola occupata da un solo detenuto, il magistrato richiamava la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo secondo cui, al di sotto di una certa metratura, individuata in mq. 3, la detenzione deve essere considerata trattamento inumano e degradante.
Nel caso di specie, lo spazio minimo riservato al detenuto era inferiore a 3 metri quadrati (il magistrato lo calcolava in 2,67 metri quadrati): in effetti, tale spazio – sulla scia di quanto desumibile dalla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Torreggiani contro Italia, pag. 16 – doveva essere calcolato al netto del mobilio presente; le altre questioni sollevate dal detenuto in ordine alle caratteristiche della cella e alla possibilità di restare per alcune ore fuori da essa erano ritenute infondate.
Di conseguenza, in forza dell’art. 69, comma 5 ord. pen., il magistrato di Sorveglianza impartiva all’Amministrazione Penitenziaria l’ordine di non allocare il reclamante in celle avente una superficie calpestabile media prò capite non inferiore a 3 metri quadrati.
2. Ricorre per cassazione il Ministro della Giustizia, deducendo violazione degli artt. 3 e 46 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, 6 ord. pen. nonchè all. C D.P.R. n. 138 del 1998.
Il ricorrente contesta che il limite minimo di 3 mq come spazio prò capite all’interno della cella debba essere conteggiato al netto della superficie occupata dal mobilio, richiamando la sentenza CEDU 5 marzo 2013, Tallissi contro Italia che l’aveva conteggiata al lordo, includendo sia la superficie degli arredi, sia quella del locale adibito a bagno, trattandosi di spazi comunque fruibili dal detenuto e dei quali, in assenza di apposita previsione normativa, non è possibile prescindere. La Corte Europea ha stabilito tale principio di diritto per la prima volta in maniera esplicito proprio con tale sentenza.
Il ricorrente ricorda che spetta alla legislazione nazionale definire le condizioni minime e sottolinea che il citato D.P.R. 138 del 1998, fa riferimento alla superficie lorda, e non a quella netta.
In un secondo motivo il ricorrente deduce violazione di legge in punto di omessa statuizione sulla richiesta, formulata dalla difesa erariale, di condanna alle spese di lite e degli onorari della difesa. Il Magistrato di Sorveglianza aveva ritenuto di non poter pronunciare sulla domanda, atteso che si trattava di procedimento penale camerale latu sensu riconducibile a quello di esecuzione.
Secondo il ricorrente, il principio della soccombenza doveva invece essere applicato. Il reclamo era di carattere giurisdizionale e la pretesa del detenuto aveva sicuramente natura patrimoniale, non solo in considerazione della possibilità, per l’Amministrazione della Giustizia, di essere condannata – anche se in un secondo momento – al pagamento di somme di denaro, ma anche in relazione alla competenza riconosciuta al giudice di assicurare ottemperanza ai suoi provvedimenti, indicando alla parte che li deve attuare modalità e tempi di adempimento. Deve pertanto trovare applicazione la regolamentazione di cui all’art. 90 c.p.c. e ss., e, in base all’art. 158 T.U. spese di giustizia, il soccombente deve essere condannato al pagamento delle spese prenotate a debito, così come previsto quando parte è un’Amministrazione pubblica.
Il ricorrente conclude per l’annullamento dell’ordinanza impugnata.
3. Il Procuratore generale, nella requisitoria scritta, conclude per la declaratoria di inammissibilità o per il rigetto del ricorso.
1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni che seguono.
Come sottolineato dal Procuratore Generale e come presupposto anche dal ricorrente, il ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del Magistrato di Sorveglianza è ammesso solo per violazione di legge:
l’art. 236 disp. coord. c.p.p., comma 2, che esclude l’applicazione del capo II bis dell’ordinamento penitenziario “nelle materie di competenza del Tribunale di Sorveglianza”, non reca alcun riferimento alle materie di competenza del Magistrato di sorveglianza. Di conseguenza per dette materie trova applicazione la L. n. 354 del 1975, art. 71 ter, che limita il ricorso per cassazione alla violazione di legge (Sez. 1, n. 25468 del 05/06/2012 – dep. 28/06/2012, Slimani, Rv. 253040) che, come noto, in relazione alla motivazione, si realizza solo in caso di motivazione inesistente o meramente apparente.
Ora, sul piano formale, nessuna norma stabilisce con precisione lo spazio vitale minimo al di sotto del quale sussiste un trattamento penitenziario inumano: nè l’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che si limita a vietare “pene o trattamenti inumani o degradanti”, nè l’art. 27 Cost., comma 2, che stabilisce anch’esso che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, nè, infine, la L. n. 354 del 1975, art. 6, in base al quale “i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti devono essere di ampiezza sufficiente…” e “i locali destinati al pernottamento consistono in camere dotate di uno o più posti”; una dimensione minima non è specificamente indicata nemmeno in sede regolamentare.
Piuttosto esiste una elaborazione giurisprudenziale da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha indicato alcuni canoni e standard di riferimento, individuando in particolare il limite di 3 mq. quale spazio minimo vitale inderogabile pro capite.
In questo quadro la valutazione concretamente operata dal Magistrato di Sorveglianza, al fine di verificare se la carcerazione – in base alle indicazioni della Corte EDU – possa ritenersi svolta in spazi così ristretti tali da violare il divieto di pene inumane e degradanti, laddove ha ritenuto violato tale divieto in relazione ad uno spazio disponibile per persona inferiore al limite di mq. 3, calcolato al netto dell’ingombro minimo del letto, in base alla indicazione di un passaggio della citata sentenza pilota Torreggiani, non è certamente incorsa in un caso di assenza o apparenza della motivazione.
Non sussiste, quindi, alcuna violazione di legge (v., in senso conforme, Sez. 1, n. 5728 del 19/12/2013, dep. 2014).
Manifestamente infondato è il motivo di ricorso concernente la condanna alle spese, sia per le considerazioni svolte dal Magistrato di Sorveglianza circa la riconducibilità del procedimento camerale de quo a quello di esecuzione, sia perchè, nel caso di specie, parte delle rimostranze avanzate dal detenuto erano state, in sostanza, accolte.
dichiara inammissibile il ricorso.