L’attività di demolizione edifici (o strade) non può essere definita un “processo di produzione” quale quello indicato dall’art. 184 bis, comma 1, lett. a), d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, con la conseguenza che i materiali che ne derivano vanno qualificati come rifiuti e non come sottoprodotti. Di fatti, il sottoprodotto deve “trarre origine” – quindi provenire direttamente – da un “processo di produzione”, dunque da un’attività chiaramente finalizzata alla realizzazione di un qualcosa ottenuto attraverso la lavorazione o la trasformazione di altri materiali, sebbene una simile descrizione non possa ritenersi esaustiva, in considerazione delle molteplici possibilità offerte dalla tecnologia.
(Cass. Sezione 3^ Penale, sentenza 18 gennaio – 23 febbraio 2018, n. 8848)
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 29 settembre 2015, il Tribunale di Forlì ha condannato gli odierni ricorrenti Sebastiano Bandini e Roberto Monti alla pena, sospesa alle condizioni di legge, di 3.000,00 euro di ammenda ciascuno, ritenendoli responsabili del reato di cui all’art. 256, comma 1, lett. a), d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, per aver effettuato, quali legali rappresentanti della GEO Snc e in un terreno di proprietà della società, un’attività di raccolta e stoccaggio di rifiuti speciali non pericolosi.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso il difensore degli imputati, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ai sensi dell’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
3. Con un primo motivo si lamenta vizio di illogicità e carenza della motivazione per essere stati i materiali in questione ritenuti rifiuti, trattandosi invece – come riferito in dibattimento dal teste Bandini, la cui deposizione sarebbe stata trascurata dal giudice – di materiali (inerti, legno, ferro) provenienti da demolizioni effettuate dalla GEO Snc in propri cantieri, ma destinati al riutilizzo quali materie prime in altri cantieri della società.
4. Con un secondo motivo – contestando illogicità ed erroneità della sentenza ed inosservanza ed errata applicazione della legge penale – ci si duole del fatto che, pur irrogando agli imputati la sola pena pecuniaria di Euro 3.000,00, il giudice abbia concesso ad entrambi il beneficio della sospensione condizionale della pena, non richiesto dal loro difensore in relazione alla specie ed entità della pena, così privandoli della possibilità di fruire in futuro di detto beneficio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono manifestamente infondati.
1. Con riguardo al primo motivo, osserva la Cote che, risultato pacifico che i materiali stoccati nel terreno di proprietà della GEO Snc – quantificati in circa 1.500 mc. e divisi in tre cumuli a seconda della natura (residui legnosi, rottami metallici e macerie di demolizioni frammiste a residui bituminosi di asfalto) – provenivano da demolizioni di fabbricati e strade altrove effettuate dalla società, risulta allora certamente corretta la loro qualificazione in termini di rifiuto effettuata dal giudice di merito, rientrando gli stessi nella definizione di cui all’art. 183, comma 1, lett. a), d.lgs. 152/2006 («qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi, o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi») ed essendo gli stessi qualificabili come rifiuti speciali a norma dell’art. 184, comma 3, lett. b), d.lgs. 152/2006. Al di là, di fatti, delle intenzioni del produttore, è certo che GEO Snc aveva l’obbligo di disfarsi di tali materiali con l’osservanza delle disposizioni dettate in materia di gestione e smaltimento dei rifiuti, salva la possibilità di dimostrare la sussistenza dei presupposti per l’applicazione di un regime giuridico più favorevole, quale quello relativo al “deposito temporaneo” o al “sottoprodotto” (cfr. Sez. 3, n. 29084 del 14/05/2015, Favazzo e a., Rv. 264121).
2. Nei ricorsi in esame, peraltro, non si prende posizione sul regime giuridico – alternativo a quello dei rifiuti – che sarebbe nella fattispecie applicabile, sicché gli stessi difettano sul punto di specificità ed appaiono comunque manifestamente infondati, emergendo dal non contestato accertamento effettuato nella sentenza impugnata come difettino i presupposti per una diversa qualificazione. Ed invero, pacifico essendo che i materiali non furono prodotti nel luogo in cui erano stoccati, provenendo da diversi altri cantieri, non ricorre innanzitutto l’ipotesi del deposito temporaneo, che, per l’art. 183, lett. bb) – a tacer d’altro – richiede appunto che il raggruppamento avvenga nel luogo in cui gli stessi sono prodotti. In secondo luogo, non è neppure invocabile la categoria del “sottoprodotto”, che per l’art. 184 bis, comma 1, lett. a), d.lgs. 152/2006 si ha – ricorrendo anche le altre condizioni previste dalla disposizione – quando «la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto». Orbene, il Collegio condivide il principio, che va qui ribadito, secondo cui l’attività di demolizione edifici (o strade) – non può essere definita un “processo di produzione” quale quello indicato dalla menzionata norma, con la conseguenza che i materiali che ne derivano vanno qualificati come rifiuti e non come sottoprodotti (Sez. 3, n. 33028 del 01/07/2015, Giulivi, Rv. 264203). Per la citata disposizione, di fatti, il sottoprodotto deve “trarre origine” – quindi provenire direttamente – da un “processo di produzione”, dunque da un’attività chiaramente finalizzata alla realizzazione di un qualcosa ottenuto attraverso la lavorazione o la trasformazione di altri materiali (sebbene una simile descrizione non possa ritenersi esaustiva, in considerazione delle molteplici possibilità offerte dalla tecnologia). Le attività di mera demolizione di manufatti – quali effettuate dalla GEO secondo l’accertamento, non contestato, contenuto a pag. 1 della motivazione della sentenza impugnata – non sono dunque finalizzate alla produzione di alcunché e non originano mai sottoprodotti, ma solo rifiuti.
3. Del pari inammissibile, per difetto d’interesse, risulta poi il secondo motivo.
Il Collegio, invero, ritiene di seguire l’orientamento interpretativo attestato da una risalente decisione assunta da questa Corte nella sua più autorevole composizione, la quale, componendo un precedente contrasto di giurisprudenza, ha affermato che «la sospensione condizionale non può risolversi in un pregiudizio per l’imputato in termini di compromissione del carattere personalistico e rieducativo della pena; l’interesse all’impugnazione, condizionante l’ammissibilità del ricorso, si configura pertanto tutte le volte in cui il provvedimento di concessione del beneficio sia idoneo a produrre in concreto la lesione della sfera giuridica dell’impugnante e la sua eliminazione consenta il conseguimento di una situazione giuridica più vantaggiosa. Il pregiudizio addotto dall’interessato, tuttavia, in tanto è rilevante in quanto non attenga a valutazioni meramente soggettive di opportunità e di ordine pratico, ma concerna interessi giuridicamente apprezzabili in quanto correlati alla funzione stessa della sospensione condizionale, consistente nella “individualizzazione” della pena e nella sua finalizzazione alla reintegrazione sociale del condannato» (Sez. U, n. 6563 del 16/03/1994, Rusconi, Rv. 197535, la quale, in applicazione del principio, ha escluso che possa assumere rilevanza giuridica la mera opportunità, prospettata dal ricorrente, di riservare il beneficio per eventuali condanne a pene più gravi, perché valutazione di opportunità del tutto soggettiva e per giunta eventuale, e comunque in contraddizione con la prognosi di non reiterazione criminale, e quindi di ravvedimento, imposta dall’art. 164, comma primo, cod. pen. per la concessione del beneficio medesimo). Come noto, in talune successive decisioni (cfr., Sez. 4, n. 15688 del 29/01/2015, Jordan, Rv. 263136) si è ammesso un interesse giuridicamente rilevante a proporre impugnazione avverso sentenze che avevano concesso d’ufficio il suddetto beneficio, nel caso di condanna alla pena dell’ammenda per reati soggetti ad oblazione ai sensi dell’art. 162 cod. pen., essendo qui ravvisabile un pregiudizio consistente nella maggior stigmatizzazione conseguente all’iscrizione nel casellario giudiziale di dette condanne, esclusivamente dovuta alla concessione del beneficio (cfr. art. 3, lett. a, d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313). Nel caso – che è quello di specie – della comminazione della sanzione dell’ammenda per reati oblazionabili ai sensi dell’art. 162 bis cod. pen. (per le quali è in ogni caso prevista l’iscrizione nel casellario), analogo interesse giuridicamente rilevante è stato riconosciuto sino a che è rimasta la preclusione alla cancellazione delle stesse, decorso un decennio, qualora fosse stato concesso uno dei benefici di cui agli artt. 163 o 175 cod. pen., quale prevista dall’art. 5, comma 2, lett. d), d.P.R. 313/2002. Tuttavia, a seguito della sentenza Corte cost. n. 287 del 2010, che, dichiarando l’illegittimità costituzionale di tale preclusione, ha determinato l’eliminazione delle iscrizioni relative a tutti i provvedimenti giudiziari di condanna per contravvenzioni per le quali è stata inflitta la pena dell’ammenda, trascorsi dieci anni dal giorno in cui la pena è stata eseguita ovvero si è in altro modo estinta, senza più compiere alcun distinguo, è stata invece riaffermata l’inammissibilità, per difetto dell’interesse ad impugnare, del ricorso per cassazione proposto avverso la sentenza di condanna a pena dell’ammenda condizionalmente sospesa “ex officio” e relativa a contravvenzione oblabile ex art. 162-bis cod. pen., nella parte in cui dispone la concessione di ufficio della sospensione condizionale della pena (Sez. 3, n. 22477/2015 del 04/11/2014, Lanzo, Rv. 263623; Sez. 4, n. 18072 del 12/02/2015, Blasco, Rv. 263439).
Con indirizzo qui da ribadire.
4. I ricorsi, pertanto, debbono essere dichiarati inammissibili. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen. ed a carico di ciascun ricorrente, l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 18 gennaio 2018