Nel caso di riforma in appello della sentenza assolutoria di primo grado, il giudice di secondo grado, anche quando non proceda ad una rivalutazione cartacea della prova dichiarativa, ma ad una diversa valutazione e valorizzazione dei riscontri a quanto affermato dalla fonte, deve assumere direttamente la testimonianza della persona offesa, ritenuta inattendibile dal primo giudice, al fine di valutarne la credibilità sotto il profilo soggettivo ed oggettivo, pena la violazione dei principi del giusto processo di cui all’art. 6 della Convenzione e.d.u.
(Cass. Sezione III Penale, 7.1.14-7.2.14, n. 5907)

La suddetta pronuncia è basata sui seguenti principi di diritto affermati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo :

Coloro che hanno la responsabilità di decidere la colpevolezza o l’innocenza di un imputato dovrebbero, in linea di massima, poter udire i testimoni personalmente e valutare la loro attendibilità; la valutazione dell’attendibilità di un testimone è un compito complesso che generalmente non può essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue parole verbalizzate.
(Corte e.d.u., 5.7.2011, Sez. III, DAINI contro MOLDAVIA, n. 8999/07 – Corte e.d.u., 4.6.13, Sez. III, Hanu v. Romania, n. 10890/04)

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENTILE Mario – Presidente –
Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –
Dott. MULLIRI Guicla – Consigliere –
Dott. GENTILI Andrea – Consigliere –
Dott. SCARCELLA Alessio – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
OMISSIS;
avverso la sentenza della Corte d’Appello di VENEZIA in data 25/03/2013;
visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessio Scarcella;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GAETA Pietro, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito per la parte civile OMISSIS, l’avv. , che ha chiesto il rigetto del ricorso, depositando conclusioni scritte e nota spese;
udite, per il ricorrente, le conclusioni dell’Avv. , che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
1. OMISSIS ha proposto tempestivo ricorso avverso la sentenza della Corte d’Appello di VENEZIA in data 25/03/2013, depositata in data 24/06/2013, che, in riforma della sentenza assolutoria emessa il 2/03/2012 dal Tribunale di VICENZA, condannava l’imputato alla pena di anni cinque e mesi sei di reclusione (oltre al pagamento delle spese processuali di entrambi i gradi di giudizio, alle pene accessorie di legge ed al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita OMISSIS da liquidarsi in separato giudizio, oltre spese di costituzione e difesa della parte civile), per i reati di violenza sessuale (capi a) e c) e lesioni personali volontarie aggravate (capo b) ai danni della moglie OMISSIS secondo le modalità meglio descritte nei capi di imputazione di cui all’impugnata decisione, dichiarando non doversi procedere per il reato di lesioni personali volontarie aggravate di cui al capo d) perchè estinto per intervenuta prescrizione, confermando, infine, l’assoluzione già pronunciata in primo grado per il reato di maltrattamenti (capo c);
2. Ricorre tempestivamente avverso la predetta sentenza il OMISSIS, a mezzo del difensore – procuratore speciale cassazionista; deducendo quattro motivi di ricorso, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Deduce, con un primo motivo, il vizio di contraddittorietà, carenza di motivazione e nullità della sentenza impugnata, per violazione delle norme di cui all’art. 546 c.p.p., comma 3, e art. 125 c.p.p., comma 3, in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e); in sintesi, si duole il ricorrente per aver il giudice d’appello, immotivatamente, escluso qualsiasi dubbio sulla sussistenza di possibili alternative spiegazioni alle accuse della persone offesa e, conseguentemente, escluso ogni ragionevole dubbio in ordine alla colpevolezza dell’imputato, con ciò violando la regola della valutazione della prova di cui all’art. 533 c.p.p., comma 1.
Sempre con riferimento a tale primo motivo, il ricorrente deduce, altresì, carenza di motivazione o vizio di apparente motivazione, risultante dal testo dell’impugnato provvedimento, per aver omesso il giudice d’appello di confrontarsi con le argomentazioni addotte dal giudice di primo grado per giungere ad escludere la responsabilità penale dell’imputato, nonchè per aver altresì omesso di valutare ed analizzare i vari elementi di prova, richiamati nella motivazione della sentenza di primo grado, che escludevano, a giudizio del tribunale vicentino, la responsabilità del ricorrente.
2.2. Deduce, con un secondo motivo, l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge processuale penale (art. 606 c.p.p., lett. c), in relazione alle norme dell’art. 591, comma 1, lett. c), in combinato disposto con l’art. 581 c.p.p., comma 1, lett. a), per violazione delle regole relative all’ammissibilità dell’impugnazione; deduce, sempre nell’ambito di tale secondo motivo, la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione dell’impugnata sentenza (art. 606 c.p.p., lett. e)), come risultante dal testo del provvedimento, nei punti in cui ha ritenuto ammissibile l’atto di appello presentato dal Procuratore Generale.
2.3. Deduce, con un terzo motivo, l’inosservanza della norma di cui all’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (art. 606 c.p.p., lett. b)), in relazione all’omessa rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per la riassunzione della testimonianza della persona offesa.
2.4. Deduce, infine, con un quarto motivo, l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge processuale penale (art. 606 c.p.p., lett. c), e specificamente, della norma di cui all’art. 597 c.p.p., comma 1, con conseguente violazione del principio devolutivo.
3. Il ricorso è fondato per le ragioni di cui si dirà oltre.
4. Preliminare all’esame dei primi due motivi di ricorso è l’esame, che può essere svolto congiuntamente attesa l’intima connessione esistente tra le stesse, delle censure di ordine processuale, riguardanti, da un lato, l’inammissibilità per asserita genericità dell’atto di appello proposto dal Procuratore Generale contro la sentenza di primo grado e, dall’altro, la violazione del c.d.
principio devolutivo di cui all’art. 597 c.p.p., comma 1, per avere la Corte d’appello di Venezia riformato la sentenza assolutoria del giudice di primo grado, nonostante i fatti di cui ai capi c) e d) dell’imputazione non fossero stati devoluti, come si desumerebbe dall’impugnazione, alla cognizione della Corte territoriale.
4.1. Secondo il ricorrente, anzitutto, l’impugnazione del P.G. presso la Corte d’appello non risulterebbe soddisfare i requisiti minimi richiesti dall’art. 581 c.p.p., comma 1, lett. a), per la valida instaurazione del giudizio impugnatorio d’appello, stante la difficoltà di individuare persino quali reati, a giudizio dell’appellante P.G., la sentenza assolutoria di primo grado meritasse censura. In sintesi, secondo il ricorrente, il P.G. avrebbe omesso di specificare in ordine a quali ipotesi delittuose ritenesse di dover dissentire dalle conclusioni cui era pervenuto il giudice di primo grado, concentrando le sue considerazioni unicamente sull’inverosimiglianza dell’origine autoindotta delle lesioni riscontrate sulla persona offesa nell’anno 2006. A fronte, dunque, di una pluralità di contestazioni per specifici e distinti episodi di violenza sessuale e lesioni volontarie, le argomentazioni dedotte dal P.G. sarebbero palesemente generiche ed assolutamente incomplete, cui si aggiungerebbe l’assoluta genericità dei motivi, desumibile dalla loro strutturazione sotto forma di “commento” agli eventi contestati, in maniera del tutto scollegata alla decisione del primo giudice.
L’assoluta genericità dell’impugnazione proposta dal P.G., non deducendo censure puntuali rispetto alla decisione impugnata, pertanto, rendeva l’atto d’appello assolutamente inidoneo ad instaurare il giudizio di secondo grado; nonostante ciò, tuttavia, secondo il ricorrente, la Corte veneziana avrebbe respinto la richiesta difensiva di dichiarare inammissibile l’impugnazione con una motivazione connotata da assoluta carenza di motivazione e da palese illogicità, come emergerebbe dal percorso argomentativo impiegato, alquanto sbrigativo ed assolutamente illogico in quanto oscuro ed incomprensibile. Da un lato, infatti, il giudice di secondo grado avrebbe omesso di specificare quali siano le censure alla prima sentenza mosse nell’atto d’impugnazione e, dall’altro, afferma del tutto immotivatamente che il giudice dell’impugnazione sarebbe stato posto innegabilmente in grado di individuare i punti della decisione cui il gravame si riferiva; inoltre, secondo il ricorrente, la Corte d’appello avrebbe ritenuto ammissibile l’impugnazione del P.G. in quanto nella stessa sarebbero elencate le circostanze valorizzate in chiave accusatoria ai fini della richiesta di riforma della sentenza di primo grado.
Tale censura, a giudizio del Collegio, non è meritevole di accoglimento. Ed invero, l’infondatezza del primo motivo di censura, si evince dalla stessa lettura della motivazione della sentenza della Corte d’appello (pag. 7) in cui la Corte precisa di essere stata posta innegabilmente in grado di individuare i punti della decisione cui il gravame si riferiva e devoluti alla sua cognizione, nonchè le ragioni di dissenso del P.G. appellante rispetto all’impugnata sentenza di primo grado, così potendo esercitare la Corte d’appello il proprio sindacato di merito, escludendo la natura generica o meramente dilatoria dell’impugnazione. La stessa Corte territoriale, nel ripercorrere fattualmente il gravame interposto dal P.G. appellante, ritiene invero adempiuto l’onere da parte del P.G. di dedurre e motivare una specifica ragione di dissenso e di doglianza sul punto relativo alla responsabilità dell’imputato, volta ad affermarne la colpevolezza; inoltre, la stessa Corte chiarisce come l’invocata inammissibilità dell’impugnazione non potrebbe nemmeno derivare dalla sostanziale riproposizione al giudice di secondo grado delle medesime ragioni di fatto e/o di diritto che sorreggevano la prospettazione accusatoria disattesa dal primo giudice.
Su tale ultimo punto, infatti, i giudici veneziani applicano correttamente i principi di diritto più volte affermati da questa stessa Sezione secondo cui non è inammissibile, per genericità dei motivi, l’appello che riproponga questioni già tutte prospettate in primo grado e disattese dal primo giudice, non comportando tale gravame alcuna preclusione ad una piena rivisitazione nel merito (v., in termini: Sez. 3, n. 1470 del 20/11/2012 – dep. 11/01/2013, Labzaoui, Rv. 254259). In virtù del principio devolutivo, infatti, il giudice d’appello è tenuto a rivisitare “in toto” i capi ed i punti della sentenza di primo grado oggetto di impugnazione; ne consegue, dunque, l’ammissibilità dell’appello che riproponga censure già esaminate e confutate dal giudice di primo grado (Sez. 2, n. 36406 del 27/06/2012 – dep. 21/09/2012, Livrieri, Rv. 253893, che ha altresì precisato che la genericità dell’appello o del ricorso per cassazione va valutata in base a parametri diversi, e che soltanto in relazione al secondo costituisce motivo di inammissibilità per aspecificità la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentative della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione).
4.2. Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi, poi, con riferimento al quarto motivo di ricorso, in relazione al quale è stata dedotta la violazione dell’art. 597 c.p.p., comma 1, in quanto il P.G. appellante avrebbe omesso di indicare quali fossero i capi ed i punti impugnati della sentenza di primo grado, oggetto di censura, essendosi limitato l’appellante ad esaminare, a giudizio del ricorrente, solo le lesioni riscontrate sulla persona offesa nel luglio 2006, difettando, invece, qualsiasi riferimento alle lesioni riferite al settembre 2004 (capo d), dell’imputazione) nonchè alle presunte violenze sessuali poste in essere dal ricorrente ai danni della persona offesa a partire dal 2004 e fino al 2006 (capo c) dell’imputazione); nessun rilievo critico, dunque, secondo il ricorrente, investirebbe l’impugnata decisione di primo grado quanto ai fatti di cui ai capi c) e d) dell’imputazione, che, pertanto, non sarebbero stati devoluti alla cognizione del giudice d’appello, in applicazione del predetto principio devolutivo, sicchè la Corte territoriale avrebbe erroneamente riformato la sentenza assolutoria emessa dal primo giudice con riguardo ai reati contestati ai capi c) e d), in mancanza di uno specifico gravame sul punto.
Ritiene, in relazione a tale motivo di censura il Collegio che, anzitutto, non sussista alcun interesse del ricorrente ad impugnare in questa sede la sentenza in relazione al capo d), per il quale la Corte territoriale ha dichiarato non doversi procedere per prescrizione, atteso che – come autorevolmente insegnato dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 42 del 13/12/1995 – dep. 29/12/1995, P.M. in proc. Timpani, Rv. 203093), l’interesse richiesto dall’art. 568, quarto comma, cod. proc. pen., quale condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, deve essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare e sussiste solo se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l’eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa per l’impugnante rispetto a quella esistente. Pertanto, qualora l’imputato denunci, al fine di ottenerne l’esatta applicazione, la violazione di una norma di diritto sostanziale (o, come nel caso in esame, processuale: art. 597 c.p.p., comma 1), in tanto può riconoscersi la sussistenza di un interesse concreto che renda ammissibile la doglianza in quanto (trattandosi di ricorso per cassazione) nell’eventuale giudizio di rinvio possa raggiungersi un risultato, non solo teoricamente corretto, ma anche favorevole. E, nel caso in esame, è evidente che nel giudizio di rinvio nessun risultato favorevole si avrebbe per il ricorrente, posto che dall’eventuale annullamento dell’impugnata sentenza d’appello (non rientrandosi nei casi di cui all’art. 604, comma 1, in relazione all’art. 623 c.p.p., comma 1, lett. b)), non ne deriverebbe alcuna utilità per il ricorrente, essendo intervenuta, prima della pronuncia della sentenza di appello, la causa estintiva della prescrizione del reato. Il ricorrente, del resto, non avrebbe nemmeno avuto interesse ad impugnare la sentenza di assoluzione, pronunciata in dibattimento per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova (art. 530 c.p.p., comma 2), sussistendo infatti tale interesse soltanto nell’ipotesi in cui l’accertamento di un fatto materiale sia suscettibile, una volta divenuta irrevocabile la sentenza, di pregiudicare le situazioni giuridiche a lui facenti capo in giudizi civili o amministrativi diversi da quelli di danno (artt. 652 e 653 c.p.p.: v., da ultimo, Sez. 5, n. 45091 del 24/10/2008 – dep. 04/12/2008, Burini e altro, Rv. 242612).
Quanto, poi, ai fatti di cui all’imputazione sub e), per i quali non vi sarebbe stata alcuna devoluzione della cognitio al giudice d’appello per la genericità dell’appello del P.G., l’infondatezza del motivo di ricorso emerge da quanto già in precedenza espresso a proposito della natura integralmente devolutiva dell’impugnazione di secondo grado. Ed invero, come già autorevolmente affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, l’appello del P.M. contro la sentenza di assoluzione emessa all’esito del dibattimento, salva l’esigenza di contenere la pronuncia nei limiti della originaria contestazione, ha effetto pienamente devolutivo, attribuendo al giudice “ad quem” gli ampi poteri decisori previsti dall’art. 597 c.p.p., comma 2, lett. b); ne consegue che, da un lato, l’imputato è rimesso nella fase iniziale del giudizio e può riproporre, anche se respinte, tutte le istanze che attengono alla ricostruzione probatoria del fatto ed alla sua consistenza giuridica; dall’altro, per quanto di interesse in questa sede, il giudice dell’appello è legittimato a verificare tutte le risultanze processuali e a riconsiderare anche i punti della sentenza di primo grado che non abbiano formato oggetto di specifica critica, non essendo vincolato alle alternative decisorie prospettate nei motivi di appello e non potendo comunque sottrarsi all’onere di esprimere le proprie determinazioni in ordine ai rilievi dell’imputato (v., per tutte: Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005 – dep. 20/09/2005, Mannino, Rv. 231675).
Ne consegue, pertanto, l’infondatezza anche di tale motivo di ricorso.
5. A diversa conclusione deve pervenirsi, a giudizio di questa Corte, con riferimento alla doglianza difensiva mossa con il terzo motivo di ricorso, la cui trattazione deve precedere logicamente, attesi gli esiti, quella del primo motivo, con cui il ricorrente ha censurato la decisione impugnata in quanto affetta da un presunto vizio motivazionale (peraltro, erroneamente richiamando l’art. 606 c.p.p., lett. c), in quanto i limiti all’ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), nella parte in cui consente di dolersi dell’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità).
Sul punto di censura, come anticipato, il ricorrente osserva come il giudice d’appello è pervenuto al giudizio di responsabilità valorizzando, quasi esclusivamente, le dichiarazioni accusatorie della persona offesa, riportate nel relativo verbale, le quali, costituendo la prova principale e decisiva contro l’imputato, sono state dai giudici d’appello pienamente attendibili e credibili e, quindi, idonee a giustificare la riforma della pronuncia assolutoria del primo giudice. Secondo il ricorrente, l’error in procedendo del giudice d’appello, attesa la riforma in pejus della prima sentenza, sarebbe consistito nella valutazione esclusivamente cartolare della testimonianza della persona offesa, in assenza della nuova audizione della persona offesa medesima, onde apprezzarne direttamente l’attendibilità. Ciò, quindi, avrebbe inficiato la sentenza impugnata, per violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, in relazione all’art. 603 c.p.p., comma 3.
Il ricorrente, a sostegno della doglianza difensiva, richiama quella giurisprudenza della Corte di Strasburgo che ha ritenuto violato il disposto dell’art. 6 citato nel caso in cui il giudice d’appello, nel riformare una sentenza assolutoria, abbia condannato l’imputato senza procedere all’assunzione della deposizione che il primo giudice abbia ritenuto, non solo prova essenziale, ma anche, dopo averla personalmente raccolta, non attendibile (v., sul punto: Corte e.d.u., 5/07/2011, Sez. III, DAINI contro MOLDAVIA, n. 8999/07).
6. S’impongono, preliminarmente alla indicazione delle ragioni argomentative che hanno indotto questo Collegio alla soluzione caducatoria dell’impugnata sentenza, alcune considerazioni.
Ed invero, il tema del rispetto dei principi del giusto processo sub specie di riforma in senso condannatorio di una sentenza assolutoria di primo grado, oltre che nella decisione richiamata dalla difesa, è stato più di recente evocato dalla Corte di Strasburgo nel caso Hanu v. Romania (Terza Sezione, n. 10890/04 del 4 giugno 2013), in cui la Corte si è occupata dei limiti di carattere probatorio alla riforma in appello della decisione assolutoria di primo grado, questione condotta, nel caso specie, lungo nuovi binari.
Viene in rilievo, in particolare, l’art. 6 p. 3 (d) secondo il quale ogni accusato ha il diritto di esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico. Nella coeva decisione sul caso Kostecki v. Poland (Quarta Sezione, 4 giugno 2013, n. 14932/09) la Corte, richiamando la propria consolidata giurisprudenza in tema di escussione testimoniale (in particolare, Al- Khawaja e Tahery v. Regno Unito, n. 26766/05 – 22228/06 del 15 dicembre 2011), afferma che il diritto garantito dall’art. 6 3 d) Conv. e.d.u. si basa sul principio secondo il quale, affinchè un imputato possa essere dichiarato colpevole, tutti gli elementi di prova a carico debbono essere prodotti in sua presenza e in pubblica udienza ai fini del contraddittorio. Da tale principio derivano due esigenze giuridiche: in primo luogo, l’assenza di un testimone deve essere giustificata da un motivo serio; in secondo luogo, nel caso in cui un provvedimento di condanna si fondi unicamente o in misura determinante sulla deposizione di un testimone assente, i diritti della difesa possono subiscono delle restrizioni incompatibili con le garanzie prescritte dall’art. 6 della Convenzione (secondo la regola della “prova unica o determinante”). In particolare, un provvedimento di condanna che si basi unicamente o in misura determinante su una testimonianza non sottoposta a controinterrogatorio, nè nella fase dell’istruzione nè in quella del dibattimento, integra una violazione dell’art. 6 pp. 1 e 3 d) Conv. se il pregiudizio così arrecato alla difesa non sia stato controbilanciato da elementi sufficienti ovvero da solide garanzie procedurali in grado di assicurare l’equità della procedura nel suo insieme. Secondo la Corte, quindi, la mancata escussione dei testi in dibattimento e la lettura dibattimentale delle dichiarazioni precedentemente rese sono ammissibili qualora le dichiarazioni stesse, in concreto, non abbiano avuto un ruolo decisivo sulla statuizione di condanna.
La lettura della decisione Hanu v. Romania e quella delle pronunce che l’hanno preceduta orienta verso la configurazione, in ambito CEDU, di un principio cardine in base al quale deve ritenersi ammissibile una decisione di grado superiore che riformi in pejus la sentenza assolutoria emessa in primo o secondo grado. Nondimeno, qualora tale riforma consegua ad una diversa valutazione delle prove orali ritenute decisive, secondo i giudici di Strasburgo è indispensabile procedere ad un nuovo esame dei testi in sede di gravame.
Va, poi, rilevato come un attento esame delle decisioni intervenute in materia induca ad affermare che Hanu v. Romania si pone nel solco di una giurisprudenza EDU ormai consolidata che (a partire dal caso Destreheme c. Francia, n. 56651/00, p. 45, 18 maggio 2004) mira a ricondurre nell’alveo della lesione del diritto di difesa – che a sua volta si traduce in una violazione dell’art. 6 – la mancata audizione diretta dei testi da parte della Corte che addivenga ad una decisione di condanna modificativa di precedente decisione assolutoria. Ci sono, tuttavia, alcuni aspetti che in qualche modo qualificano quest’ultima decisione rispetto alle precedenti.
Da un lato, ma la prerogativa non è esclusiva di questa pronunzia pur essendo ivi meglio esplicitata, la circostanza che, nel caso de quo, si tratta di riforma in appello della sentenza assolutoria di primo grado; invero, almeno fino a Dan c. Moldavia, la Corte si era occupata della diversa valutazione delle prove assunte nei due gradi di merito da parte della Corte suprema che per prima, giunga ad una decisione di condanna.
Dall’altro, ma l’aspetto era già presente in qualche modo nel citato caso Destreheme c. Francia e nel caso P.K. c. Finlandia (n. 37442/97 del 9 luglio 2002), nel caso Hanu c. Romania si trova la chiara affermazione secondo cui uno dei requisiti fondamentali del processo equo è rappresentato dalla possibilità per l’accusato di ottenere l’escussione diretta ed eventualmente un confronto con i testimoni alla presenza del giudice deputato in ultima istanza a decidere dal momento che il controllo di quest’ultimo sul contegno e la credibilità dei testimoni possono avere conseguenze per l’accusato.
Ma ciò che più sembra interessante sottolineare è la peculiare declinazione che delle “circostanze eccezionali”, atte a condurre la Corte di Strasburgo ad intervenire sulle modalità di ammissione e assunzione della prova nell’ambito degli ordinamenti nazionali, viene fornita nella decisione.
Si tratta del riferimento all’accertamento di natura “fattuale” che, non potendo esser compiuto dalla Corte Suprema, deve essere oggetto di rinvio alla corte inferiore perchè si proceda ad una nuova assunzione della prova.
Sembra non potersi revocare in dubbio, infatti, che il carattere di eccezionalità che connota il percorso argomentativo della Corte sulle modalità di acquisizione della prova nell’ordinamento interno, ove collegato sic et simpliciter alla natura fattuale dell’accertamento da compiersi, subisca una significativa dilatazione ed induca, quindi, a reputare imprescindibile un nuovo, diretto esame che appare, per conseguenza, sempre meno connotato dai tratti dell’extra ordinem.
7. Alla luce della considerazioni che precedono, quindi, questo Collegio non può che condividere le doglianze difensive sul punto.
L’obbligo per il giudice d’appello di procedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in caso di diverso apprezzamento di attendibilità della prova orale, ritenuta in primo grado inattendibile, è stato del resto ribadito anche in numero pronunce di questa Corte (Sez. 6, n. 16566 del 26/02/2013 – dep. 12/04/2013, Caboni ed altro, Rv. 254623; Sez. 5, n. 28061 del 07/05/2013 – dep. 26/06/2013, Marchetti, Rv. 255580). Questo Collegio non ignora, peraltro, l’altro orientamento venutosi a formare nella giurisprudenza di questa Corte che, da un lato, esclude che il giudice d’appello abbia l’obbligo, per procedere alla “reformatio in peius” della sentenza assolutoria di primo grado, di procedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale (nel caso specie, il giudice d’appello non aveva compiuto una rivisitazione in senso peggiorativo delle prove già acquisite, ma aveva fornito una lettura corretta e logica degli elementi probatori palesemente travisati dal primo giudice: Sez. 4, n. 4100 del 06/12/2012 – dep. 25/01/2013, Bifulco, Rv. 254950) e, dall’altro, ritiene invece che tale obbligo sussista, tranne che non ricorrano due circostanze: a) l’escussione risulti a priori superflua perchè le dichiarazioni rese in primo grado non necessitino di chiarimenti o integrazioni, nè sussistano contraddittorietà o ambiguità da dirimere; b) la persona da escutere non sia terza rispetto alla vicenda, ma vittima di un reato che ne ha leso gravemente e violentemente la libertà personale ed il cui effetto è stato, in misura maggiore o minore, pregiudizievole per la vittima medesima e tale da far ritenere che la rievocazione ulteriore del fatto in sede processuale possa per essa essere oggettivamente lesiva (Sez. 3, n. 32798 del 05/06/2013 – dep. 29/07/2013, N.S. e altro, Rv. 256906).
Al fine di dirimere l’apparente contrasto, ritiene il Collegio fondamentale procedere alla corretta esegesi di quanto affermato dalla Corte e.d.u. Ed invero, anche nella motivazione della richiamata sentenza Daini c. Moldavia si legge chiaramente (p. 33) che “the issues to be determined by thè Court of Appeal when convicting and sentencing thè applicant – and, in doing so, overturning his acquittal by thè first-instance court – could, as a matter of fair trial, have been properly examined without a direct assessment of the evidence given by thè prosecution witnesses”, ossia che “coloro che hanno la responsabilità di decidere la colpevolezza o l’innocenza di un imputato dovrebbero, in linea di massima, poter udire i testimoni personalmente e valutare la loro attendibilità”, aggiungendo che “la valutazione dell’attendibilità di un testimone è un compito complesso che generalmente non può essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue parole verbalizzate”. Trattasi di un’affermazione che, a giudizio di questo Collegio, tenuto conto di quanto già evidenziato nel precedente p.6, non può soffrire eccezioni o deroghe soprattutto quando, come nel caso in esame, si tratta di prova testimoniale di persona offesa maggiorenne e la stessa appaia decisiva ai fini dell’affermazione della responsabilità penale (l’art. 190 bis c.p.p., comma 1 bis, peraltro, prevede che la previsione del comma 1 – secondo cui l’esame di chi ha già reso dichiarazioni in dibattimento nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate, è ammesso solo se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni ovvero se il giudice o taluna delle parti lo ritengono necessario sulla base di specifiche esigenze – trova applicazione, nei reati sessuali, solo se l’esame richiesto riguarda un testimone minore degli anni sedici, ciò che esclude l’applicazione della regola del c.d. esame condizionato per il maggiorenne, persona offesa nei reati sessuali).
In altri termini, dunque, se è ben vero che, in assenza di mutamenti del materiale probatorio acquisito al processo, la riforma della sentenza assolutoria di primo grado, una volta compiuto il confronto puntuale con la motivazione della decisione di assoluzione, impone al giudice di argomentare circa la configurabilità del diverso apprezzamento come l’unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole dubbio, in ragione di evidenti vizi logici o inadeguatezze probatorie che abbiano minato la permanente sostenibilità del primo giudizio (Sez. 6, n. 8705 del 24/01/2013 – dep. 21/02/2013, Farre e altro, Rv. 254113), non è, però, sufficiente che la stessa sia dotata una forza persuasiva superiore, tale da far venir meno ogni ragionevole dubbio, essendo comunque necessario – quand’anche il giudice d’appello non proceda ad una rivalutazione cartacea della prova dichiarativa, ma ad una diversa valutazione e valorizzazione dei riscontri a quanto affermato dalla fonte, come verificatosi nel caso in esame – che il giudice d’appello assuma direttamente la testimonianza della persona offesa, ritenuta inattendibile dal primo giudice, al fine di valutarne la credibilità sotto il profilo soggettivo ed oggettivo, pena la violazione dei principi del giusto processo di cui all’art. 6 della Convenzione e.d.u..
8. L’accoglimento di tale motivo di ricorso, esime la Corte dall’esaminare l’ulteriore profilo di doglianza espresso nel primo motivo, da ritenersi dunque assorbito. L’impugnata sentenza dev’essere, conseguentemente, annullata con rinvio al giudice d’appello, altra sezione, che si atterrà a quanto deciso da questa Corte.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte d’Appello di Venezia, altra sezione.

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