Commette violazione dell’art. 38 del R.D.L. 1578/1933 e degli artt. 7 e 9 (20 e 37) del codice deontologico forense, l’avvocato che comunica a terzi i precedenti penali riguardanti il proprio cliente, così ponendo in essere atti contrari all’interesse del proprio assistito e violazione dell’obbligo di segretezza in ordine ai procedimenti penali medesimi, conosciuti in ragione del mandato ricevuto.
(Cass. Sezioni Unite Civili, sentenza 17 settembre 2010, n. 19702)
Corte Suprema di Cassazione
Sezioni Unite Civili
Sentenza 17 settembre 2010, n. 19702
[OMISSIS]
Il Consiglio nazionale forense, con decisione adottata il 26 febbraio 2009, ha confermato la sanzione disciplinare della sospensione di un anno dall’esercizio della professione irrogata all’avvocato [OMISSIS] dal C.O.A. di Venezia, ritenendolo responsabile della violazione dell’art. 38 del R.D.L. 1578/1933 e degli artt. 7 e 9 (20 e 37) del codice deontologico forense – per aver comunicato a terzi, quale difensore di fiducia di [OMISSIS] dinanzi al tribunale penale di Trento, i precedenti penali riguardanti il proprio cliente, così ponendo in essere atti contrari all’interesse del proprio assistito – e della violazione dell’obbligo di segretezza in ordine ai procedimenti penali medesimi, dei quali era venuto a conoscenza in ragione mandato ricevuto.
Per la cassazione di tale decisione ricorre dinanzi a queste sezioni unite [OMISSIS] sulla base di 9 motivi di censura (erroneamente enumerati come 8 in ricorso). Resiste con controricorso il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Venezia. Le parti hanno entrambe depositato memorie illustrative.
Va in limine rilevata e dichiarata la inammissibilità della produzione documentale depositata dalla difesa del [OMISSIS] non attinente a profili di nullità della sentenza impugnata, ovvero di ammissibilità del ricorso e/o del controricorso.
Il ricorso è infondato.
Vanno in ordine logico esaminati preliminarmente i motivi VIII (erroneamente indicato come settimo), e IX (erroneamente presentato come ottavo), afferenti, rispettivamente, ad una pretesa incompetenza del Consiglio dell’ordine di Venezia ad emettere la decisione poi confermata dal Consiglio nazionale, e ad una supposta contrarietà a Costituzione del procedimento disciplinare forense (nella specie, per violazione dell’art. 111).
Entrambe le doglianze risultano palesemente infondate.
Quanto alla pretesa incompetenza del C.d.O. lagunare – conseguenza, a detta del ricorrente, dell’applicazione del c.d. “principio di prevenzione” di cui all’art. 38 RDL 1578/1933, in forza del quale la competenza a decidere sull’esposto di [OMISSIS] (atto dal quale trasse linfa l’odierno procedimento disciplinare) sarebbe stata del C.d.O. di Roma, custode dell’albo cui il [OMISSIS] risultava iscritto, onde quel consesso, avendo già aperto il procedimento disciplinare, non avrebbe potuto rimettere gli atti al consiglio veneziano, competente per territorio -, osserva il collegio (pur nel prescindere dai patenti profili di inammissibilità della doglianza, attesane la evidente intempestività) che emerge ex actis (cui questa corte ha diretto accesso, essendo denunziato un vizio in procedendo) l’esistenza non già di un procedimento disciplinare pendente dinanzi al consiglio romano, ma la mera trasmissione, da parte di quest’ultimo, dell’esposto [OMISSIS]all’organo disciplinare veneziano che, con delibera del 24.7.2006, ha aperto (per la prima volta, e del tutto legittimamente) il procedimento medesimo.
Quanto alla pretesa incostituzionalità del procedimento disciplinare forense per pretesa violazione dell’art. 111 della Costituzione, è sufficiente osservare che i procedimenti (e i conseguenti giudizi) instaurati presso il consigli territoriali degli ordini hanno natura amministrativa (onde la evidente non conferenza del richiamo alla norma della Carta fondamentale, essendo il principio di terzietà irredimediabilmente dettato con riferimento alla attività di giurisdizione e non di amministrazione), mentre l’organo fornito di potestà giurisdizionale, e cioè il Consiglio nazionale forense, non ha competenza alcuna a dare impulso al procedimento disciplinare (onde la palese infondatezza, per altro verso, dell’ulteriore richiamo al principio di terzietà operato dal ricorrente i rimanenti motivi, che rappresentano a questa corte, sotto vari profili, doglianze di merito (travisamento dei fatti, errata valutazione dei medesimi, contraddittorietà della decisione sotto plurimi aspetti valutativi) sono nel loro complesso inammissibili e comunque infondati.
Sicuramente inammissibili risultano le censure di travisamento dei fatti di causa, eventualmente oggetto di altra, diversa impugnazione.
Complessivamente infondate appaiono, ancora, le doglianze di erroneità e contraddittorietà della decisione, tutte inevitabilmente destinate ad infrangersi sul corretto, articolato, condivisibile impianto motivazionale adottato dal giudice del merito.
E ciò è a dirsi:
– in riferimento alla pretesa, “contraddizione temporale” della decisione impugnata (primo motivo dì ricorso), poiché la qualità di difensore dell’odierno incolpato non era ancora cessata all’atto del suo accesso allo schedario informatico da cui ebbe ad attingere le notizie relative ai precedenti penali del suo cliente (non senza considerare che, pur se ipoteticamente sollevato da ogni incarico, le notizie apprese in veste di difensore non avrebbero mai potuto costituire oggetto di legittima divulgazione senza che ciò costituisse un vulnus ad elementari norme deontologiche);
– con riferimento alla richiesta di rivalutazione delle prove e dei fatti “nella loro oggettività” (secondo, terzo e quarto motivo), richiesta che, giusta cristallizzati principi di diritto ripetutamente predicati da questo giudice, non può in alcun modo e sotto alcun profilo trovare ingresso in sede di legittimità, essendo ius receptum presso questa corte regolatrice il principio secondo cui l’art. 360 n. 5 del codice di rito non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica – delle valutazioni compiute dal giudice di cui si impugna la pronuncia (nella specie, il CNF), al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove, controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione. Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perché in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai cristallizzate quoad effectum) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito processo di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella risultanza procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di merito non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente a porsi dinanzi al giudice di legittimità;
– con riferimento alla richiesta di rivalutazione della gravità del fatto sotto il profilo dell’entità e rilevanza delle notizie illegittimamente propalate dal ricorrente (motivo quinto), valendo per essa le medesime considerazioni svolte poc’anzi, non ravvisandosi alcuna contraddittorietà ed alcun vizio logico giuridico nell’iter motivazionale seguito dal consiglio dell’ordine per giungere alla decisione oggi impugnata;
– con riferimento, ancora, alla pretesa, mancata valutazione dello scopo perseguito con la divulgazione delle notizie riguardanti il [OMISSIS] (motivo sesto), attesane la assoluta ultroneità ed irrilevanza ai fini della censurabilità e sanzionabilità del comportamento illecito del tutto correttamente ascritto al [OMISSIS];
– con riferimento, infine, alla pretesa violazione degli artt 129 e 533 del codice di rito penale (motivo settimo, erroneamente indicato come sesto), motivo di cui risulta patente la inammissibilità, attesa, da un canto, la assoluta disomogeneità sistemica tra i due ordinamenti, civile e penale, dall’altro, la totale impredicabilità di qualsivoglia margine di “dubbio” in ordine al comportamento ascritto all’incolpato odierno ricorrente.
Il ricorso è pertanto rigettato.
La disciplina delle spese (che possono per motivi di equità essere in questa sede compensate) segue come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e dichiara compensate le spese del giudizio di cassazione.
Depositata in Cancelleria il 17.09.2010