Confermata la sentenza di condanna per l’incendio colposo verificatosi il 24.3.2002, presso lo stabilimento Thyssenkrupp di Torino. All’epoca non vi furono né morti né feriti, ma a distanza di qualche anno (6.12.2007), si verificò un nuovo incendio presso il medesimo stabilimento e questa volta persero la vita sette operai. Il processo, per questo secondo episodio, è attualmentre in corso innanzi la Corte di Assise di Torino (è la prima volta che una Corte di Assise è chiamata a giudicare fatti concernenti la sicurezza sul lavoro e ciò è dovuto alla imputazione del reato di omicidio volontario – con dolo eventuale – mossa nei confronti dell’Amministratore delegato dell’azienda).
Con riferimento all’incendio verificatosi nel marzo del 2002, la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza depositata il 28.1.2009, ha confermato la decisione della Corte di Appello di Torino, che, a sua volta, confermava quella assunta all’esito del giudizio abbreviato dal G.U.P. presso il Tribunale di Torino.
La decisione si sofferma sulla disciplina vigente in tema di prevenzione degli infortuni sul luogo di lavoro (anche alla luce del D.L.vo n. 81 del 2008) e fornisce una interessante rassegna degli obblighi posti a carico del datore di lavoro, che non possono in alcun modo essere delegati, anche in presenza di imprese di grande dimensione.
Corte di Cassazione
Sez. IV, 28 gennaio 2009, n. 4123
(ud. 10 dicembre 2008).
Pres. Mocali – Est. Piccialli – P.M. Fraticelli (diff.) – Ric. Vespasiani.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE. – Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Torino confermava la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva riconosciuto la penale responsabilità dell’ingegnere Vespasiani Giovanni per il reato di incendio colposo ex art. 449, comma 1, c.p.. mentre assolveva Borghesi e Pfannschmidt dallo stesso reato con la formula per non avere commesso il fatto.
Il giorno 24 marzo 2002 nello stabilimento Thyssenkrupp di Torino, si era sviluppato un incendio di vaste proporzioni che aveva interessato la zona laminatoio Sendzimir 62, che era stato spento, a seguito dell’intervento di 16 squadre dei vigili del fuoco, solo alle ore 8 del 26 marzo.
La predetta zona laminatoio, come emerge dalla sentenza, era una zona ad alto rischio incendio, per la presenza di olio da raffreddamento delle lavorazioni che, una volta sporco, veniva convogliato in una grossa vasca in acciaio che fungeva da polmone, e ripulito, passava in una seconda vasca, da cui veniva rilanciato nella gabbia ove erano ubicati i rulli lubrificati, che servivano a trasformare i nastri di acciaio arrotolati in lamine. L’incendio aveva riguardato, in particolare, proprio le vasche contenenti i 20.000 litri di olio incendiatosi durante la fase di lavorazione di raffreddamento lamiere ed aveva interessato il piano interrato, campata A e circa 60 metri di cubicoli interrati, percorsi da cavi elettrici a servizio dello stabilimento industriale.
Al Vespasiani, nella qualità di Presidente del comitato esecutivo, costituito nel 2001, nonché titolare delle deleghe in materia di sicurezza ed igiene del lavoro, veniva contestato di avere colposamente dato causa all’incendio, per avere omesso di individuare le misure di prevenzione e protezione da adottare contro il rischio incendio e di non avere segnalato la necessità di interventi costosi per fronteggiare l’imminente rischio di incendio.
Per quanto rileva in questa sede, gli altri due imputati, nella qualità di componenti del Comitato esecutivo, erano stati assolti dal giudice di secondo grado, sul rilievo che erano titolari di deleghe diverse da quella della sicurezza e non erano stati sollecitati da chi era preposto alla sicurezza.
Con riferimento alla posizione del Vespasiani, il giudicante riteneva, innanzitutto, la sussistenza delle condizioni per la configurabilità dell’evento quale incendio anche prima dell’intervento dei vigili del fuoco.
In secondo luogo, escludeva che le “procedure maldestre” seguite dai vigili del fuoco per fronteggiare la situazione avessero assunto il ruolo di concausa nella raggiunta dimensione dell’evento, atteso che l’intervento si era ispirato a protocolli consolidati e standardizzati, in condizioni già difficili e di emergenza.
Inoltre i consulenti del PM avevano provato, anche con supporti documentali, che altri corridoi, diversi dalla botola aperta dai vigili, avevano consentito l’accesso di aria pulita dall’esterno che aveva alimentato le fiamme.
Quanto alla contestazione sulle carenze dei presidi antincendio, la Corte di merito sottolineava che i rilievi dei consulenti si erano appuntati sui locali sottostanti al laminatoio, che non erano compartimentati, visto che i fumi avevano trovato ampie di fuga e l’aria fresca le vie di accesso all’interno (il locale veniva, in effetti, compartimentato nella ristrutturazione successiva all’incendio).
Sulla carenza di un sistema di intervento ad attivazione automatica, i giudici di appello osservavano anche che si sarebbe dovuto preferire questo tipo di impianto, visto che in un luogo ad elevato rischio di incendio andava privilegiata l’immediatezza dell’intervento, anche assumendo il rischio che l’impianto entrasse in funzione su falso allarme.
Quanto alla esistenza dei rilevatori di fumo, la sentenza sottolineava che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, l’addebito era quello della mancata dotazione di un sistema video e non dei rilevatori, invece, pacificamente esistenti.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l’imputato Vespasiani, per mezzo del difensore.
Con il primo motivo, denuncia l’erronea applicazione dell’art. 449 c.p. e conseguente manifesta illogicità della sentenza, laddove aveva disatteso l’impostazione difensiva fondata sulla fondamentale distinzione tra “fuoco” ed “incendio”. Si deduce sul punto che sino all’arrivo dei vigili del fuoco erano insussistenti le caratteristiche dell’incendio (vastità, diffusività e difficoltà di estinzione) e che era stata proprio l’attività maldestra dei vigili del fuoco a trasformare il fuoco in incendio.
Quanto alla esistenza dei rilevatori di fumo, la sentenza sottolineava che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, l’addebito era quello della mancata dotazione di un sistema video e non dei rilevatori, invece, pacificamente esistenti.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l’imputato Vespasiani, per mezzo del difensore.
Con il primo motivo, denuncia l’erronea applicazione dell’art. 449 c.p. e conseguente manifesta illogicità della sentenza, laddove aveva disatteso l’impostazione difensiva fondata sulla fondamentale distinzione tra “fuoco” ed “incendio”. Si deduce sul punto che sino all’arrivo dei vigili del fuoco erano insussistenti le caratteristiche dell’incendio (vastità, diffusività e difficoltà di estinzione) e che era stata proprio l’attività maldestra dei vigili del fuoco a trasformare il fuoco in incendio.
Si sottolinea, in particolare, che la Corte di merito, pur dando atto di manovre maldestre poste in essere dai vigili (apertura di alcune botole con la conseguente immissione di aria che aveva favorito la combustione; l’introduzione di acqua, che aveva determinato il traboccamento dell’olio dalle vasche di raccolta, cosi alimentando l’incendio), apoditticamente avrebbe escluso la concreta possibilità di estinzione dell’incendio in assenza di detta attività, facendo riferimento ad imprecisate correnti di aria che avrebbero comunque alimentato il fuoco. Si sostiene, inoltre, che in ogni caso sarebbe mancata la caratteristica della diffusività dell’incendio in quanto il laminatoio in questione, come tutti gli altri, era allocato al di sopra di fondi assolutamente non collegati l’uno con l’altro.
Con il secondo motivo, strettamente connesso, si duole dell’erronea applicazione degli artt. 40 e 41 c.p. in tema di causalità sostenendo che erroneamente i giudici di appello avevano escluso la configurabilità dell’intervento dei vigili del fuoco come causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l’evento, senza tener conto che i vigili erano intervenuti sul luogo dell’incendio ben 18 minuti dopo la chiamata, pur essendo in posizione confinante con lo stabilimento e che in un primo momento avevano utilizzato mezzi ordinari (autobotte con acqua e non materiale schiumogeno), così dimostrando la originaria banalità dell’incidente.
Con il terzo motivo, lamenta la mancanza di motivazione con riferimento all’elemento psicologico del reato sotto vari profili.
Innanzitutto si sostiene l’erroneità della decisione nella parte in cui aveva escluso la validità delle deleghe conferite dal Vespasiani in materia di sicurezza, pur non contestando la veridicità delle stesse e l’idoneità tecnica dei soggetti delegati, ma solo la non trasferibilità a terzi di doveri e poteri in tema di sicurezza.
Con il secondo motivo, strettamente connesso, si duole dell’erronea applicazione degli artt. 40 e 41 c.p. in tema di causalità sostenendo che erroneamente i giudici di appello avevano escluso la configurabilità dell’intervento dei vigili del fuoco come causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l’evento, senza tener conto che i vigili erano intervenuti sul luogo dell’incendio ben 18 minuti dopo la chiamata, pur essendo in posizione confinante con lo stabilimento e che in un primo momento avevano utilizzato mezzi ordinari (autobotte con acqua e non materiale schiumogeno), così dimostrando la originaria banalità dell’incidente.
Con il terzo motivo, lamenta la mancanza di motivazione con riferimento all’elemento psicologico del reato sotto vari profili.
Innanzitutto si sostiene l’erroneità della decisione nella parte in cui aveva escluso la validità delle deleghe conferite dal Vespasiani in materia di sicurezza, pur non contestando la veridicità delle stesse e l’idoneità tecnica dei soggetti delegati, ma solo la non trasferibilità a terzi di doveri e poteri in tema di sicurezza.
Le violazioni contestate al Vespasiani riguardavano, secondo l’assunto difensivo, attività delegabili, in quanto non erano riferite né alla elaborazione del documento di valutazione dei rischi né alla nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione. Si evidenzia altresì che presunte carenze relativa al laminatoio Sendmizir non erano mai state portate, neanche dagli organismi di controllo, a conoscenza dell’imputato.
Lamenta l’omessa motivazione in merito al motivo di appello riguardante le contestazioni sull’assenza dei rilevatori di fumo e dell’automatismo nell’impianto di estinzione.
Sotto il primo profilo, si sostiene che la Corte di merito, ricadendo nello stesso errore del giudice di primo grado, non aveva tenuto conto che dalla stessa consulenza del PM era emerso che l’allarme era stato dato proprio dai rilevatori di fumo e che tale sistema di sicurezza, come emergeva dal capo di imputazione, era alternativo a quello del video a circuito chiuso.
Sotto il secondo profilo, si lamenta che la Corte di merito aveva omesso di motivare sul motivo di appello che, nel giustificare la scelta operata della manualità dell’impianto di estinzione, aveva valorizzato la circostanza che l’entrata in funzione dell’impianto automatico poteva determinare le ben più gravi
conseguenze della folgorazione o del soffocamento di lavoratori eventualmente presenti nei fondi, investiti dallo schiumogeno in presenza di impianti elettrici o soffocati dall’impianto a Co2.
Con il quarto motivo, infine, lamenta l’erronea applicazione della pena con riferimento alla quantificazione della pena ed alla omessa conversione della pena detentiva in pecuniaria, in considerazione della incensuratezza dell’imputato.
Il primo ed il secondo motivo possono essere trattati congiuntamente essendo diretti entrambi a censurare la logicità della motivazione nella parte in cui afferma la responsabilità del Vespasiani ed esclude quella dei vigili del fuoco per la trasformazione del fuoco in incendio.
In sostanza, il ricorrente vorrebbe che fosse esclusa ogni sua responsabilità per l’incendio, prospettando l’ipotesi che la condotta colposa dei vigili del fuoco avrebbe integrato una causa sopravvenuta sufficiente da sola a produrre l’evento ex art. 41, comma 2, c.p.
Le censure sono infondate; avendo il giudicante logicamente evidenziato che proprio la mancata adozione da parte del Vespasiani, nella qualità di titolare delle deleghe in tema di sicurezza ed igiene del lavoro, delle cautele e dei presidi necessari e dovuti al fine di prevenire gli incendi, si era posta in nesso di relazione causale con l’evento prodottosi.
È censura di merito, a fronte di una motivazione immune da palesi illogicità, quella che contesta la riconducibilità dell’incendio alle carenze nelle misure di prevenzione e radica il profilo di colpa nell’opera maldestra dei vigili del fuoco, che erano intervenuti con il buttare acqua sull’olio, con il conseguente effetto di alzare il livello dell’olio e farlo tracimare, così favorendo l’incendio.
La sentenza, invece, appare solida e immeritevole di censure nella ricostruzione del nesso eziologico e nel collegamento del fatto alla condotta omissiva del Vespasiani.
Il primo ed il secondo motivo possono essere trattati congiuntamente essendo diretti entrambi a censurare la logicità della motivazione nella parte in cui afferma la responsabilità del Vespasiani ed esclude quella dei vigili del fuoco per la trasformazione del fuoco in incendio.
In sostanza, il ricorrente vorrebbe che fosse esclusa ogni sua responsabilità per l’incendio, prospettando l’ipotesi che la condotta colposa dei vigili del fuoco avrebbe integrato una causa sopravvenuta sufficiente da sola a produrre l’evento ex art. 41, comma 2, c.p.
Le censure sono infondate; avendo il giudicante logicamente evidenziato che proprio la mancata adozione da parte del Vespasiani, nella qualità di titolare delle deleghe in tema di sicurezza ed igiene del lavoro, delle cautele e dei presidi necessari e dovuti al fine di prevenire gli incendi, si era posta in nesso di relazione causale con l’evento prodottosi.
È censura di merito, a fronte di una motivazione immune da palesi illogicità, quella che contesta la riconducibilità dell’incendio alle carenze nelle misure di prevenzione e radica il profilo di colpa nell’opera maldestra dei vigili del fuoco, che erano intervenuti con il buttare acqua sull’olio, con il conseguente effetto di alzare il livello dell’olio e farlo tracimare, così favorendo l’incendio.
La sentenza, invece, appare solida e immeritevole di censure nella ricostruzione del nesso eziologico e nel collegamento del fatto alla condotta omissiva del Vespasiani.
La Corte di merito, infatti, nel richiamare la ricostruzione dei fatti operata dal primo giudice, ha innanzitutto evidenziato che il fuoco sviluppatosi all’interno del laminatoio Sendzimir 62, per la vastità della zona interessata, per le difficoltà di spegnimento e la diffusività delle fiamme, aveva già assunto le caratteristiche dell’incendio quando erano intervenuti i vigili del fuoco, che impiegarono ben 3 giorni (dalle ore 12,43 del 24 alle ore 6 del 26 marzo) per domare le fiamme, con l’utilizzo di 270 uomini e 20 mezzi fissi sul posto.
L’accertamento di fatto compiuto dai giudici di merito con logicità argomentativa sulla sussistenza di tali requisiti per la configurabilità dell’incendio, in linea con l’orientamento consolidato di questa Corte (v., tra le altre, Sez. IV, 2 luglio 2007, Di Giovanni) è incensurabile in questa sede di legittimità.
È stato poi evidenziato, alle luce delle risultanze della consulenza del PM, che tale situazione era stata la conseguenza della inadeguatezza dei presidi antincendio che, se solo fossero stati più efficienti, avrebbero consentito di evitarla. La carenza è stata individuata, così confermando l’ipotesi accusatoria, nella omessa compartimentazione dei locali sottostanti il laminatoio e degli altri ad esso asserviti, nella mancanza di un sistema di intervento ad attivazione automatica e nella mancata dotazione di un sistema a video, o a circuito chiuso, che consentisse l’immediata percezione del pericolo con l’entrata in funzione degli esistenti rilevatori di fumo.
La sentenza impugnata si è altresì soffermata sulla ipotesi prospettata dalla difesa secondo la quale la causa del propagarsi delle fiamme era da individuare nel comportamento dei vigili del fuoco, affrontando adeguatamente la questione della possibile esistenza di un fattore causale, alternativo o quantomeno concorrente, tale da potere costituire elemento di smentita o di correzione della ricostruzione ipotizzata ed accolta.
Ciò il giudicante ha fatto escludendo la sussistenza di elementi di responsabilità ascrivibili ad essi con motivazione convincente che esclude che qui possa porsi alcun profilo di rilevanza di detta condotta.
La ricostruzione operata dalla difesa si poggia infatti su un’asserita condotta colposa dei vigili del fuoco che il giudicante ha escluso, attraverso una analitica disamina critica del materiale probatorio, pur dando atto di maldestre procedure (apertura di botole con l’immissione di aria che aveva favorito la combustione, utilizzo dell’acqua per lo spegnimento delle fiamme che aveva determinato il traboccamento dell’olio, che così era fuoriuscito dalle vasche) seguite per fronteggiare la situazione nella fase iniziale.
Affrontando la questione della possibile rilevanza causale di dette condotte, la Corte di merito ha innanzitutto escluso, effettuando un giudizio controfattuale meramente ipotetico – in linea con quanto puntualizzato dalla nota sentenza delle Sezioni unite 10 luglio 2002, Franzese, improntata al rispetto della regola della certezza processuale – che senza dette manovre l’incendio si sarebbe estinto, evidenziando, alle luce delle risultanze della CTU, che lo stesso sarebbe stato comunque alimentato da altre correnti di aria che avevano accesso dall’esterno e ribadendo la grave carenza dei presidi antincendio come condicio sine qua non del rapido propagarsi e della estesa diffusività delle fiamme.
A ciò aggiungasi che proprio l’iniziale improvvido intervento dei vigili del fuoco, come esattamente sottolineato nella sentenza gravata, sotto certi aspetti, anziché togliere i profili di responsabilità, li aveva accentuati, dando la prova che la particolarità del luogo, caratterizzato da elevato rischio d’incendio per la presenza di olio di raffreddamento, non era stata fatta oggetto di particolari segnalazioni di rischio e di accorgimenti in grado di indirizzare eventuali interventi emergenziali.
Il diverso assunto del ricorrente al riguardo si risolve in una diversa ricostruzione fattuale ed in un diverso apprezzamento di circostanze fattuali, non utilmente prospettabili in sede di legittimità, rivelandosi le doglianze del ricorrente meramente assertive. Non potrebbe quindi il giudice di legittimità sostituirsi ai giudici di merito nella ricostruzione dei fatti e nella valutazione dei medesimi, non essendo la sentenza impugnata incorsa in alcun vizio logico.
Anche il terzo motivo è infondato.
A base dell’affermato giudizio di colpevolezza i giudici di merito hanno posto l’apprezzamento del ruolo svolto dal Vespasiani all’interno del comitato direttivo dell’azienda, capo del settore di produzione e sicurezza, con autonomia gestionale e di spesa.
La Corte di appello, attraverso la disamina degli atti di causa, ha ampiamente argomentato sui profili della ritenuta responsabilità dell’imputato, corrispondendo del resto puntualmente rispetto alle doglianze proposte con l’appello.
I giudici di appello, richiamando anche le argomentazioni del primo giudice, hanno ritenuto che la delega operata dal Vespasiani non valeva ad esonerarlo da responsabilità, essendo taluni obblighi, tra cui quello di valutare i rischi connessi all’attività di impresa e di individuare le misure di protezione, ontologicamente connessi alla funzione ed alla qualifica propria del datore di lavoro e, quindi, non utilmente trasferibili.
Il ragionamento della Corte territoriale è logico e corretto e non è pertanto sindacabile in sede di legittimità.
È utile in proposito ricordare taluni principi affermati da questa Corte in tema di delega del datore di lavoro.
È vero che nelle imprese di grandi dimensioni, come sostenuto dalla difesa, si pone la delicata questione, attinente all’individuazione del soggetto che assume su di sé, in via immediata e diretta, la posizione di garanzia, la cui soluzione precede, logicamente e giuridicamente, quella della (eventuale) delega di funzioni.
In imprese di tal genere, infatti, non può individuarsi questo soggetto, automaticamente, in colui o in coloro che occupano la posizione di vertice, occorrendo un puntuale accertamento, in concreto, dell’effettiva situazione della gerarchia delle responsabilità all’interno dell’apparato strutturale, così da verificare la eventuale predisposizione di un adeguato organigramma dirigenziale ed esecutivo il cui corretto funzionamento esonera l’organo di vertice da responsabilità di livello intermedio e finale (così, esattamente, Sezione IV, 9 luglio 2003, Boncompagni; Sezione IV, 27 marzo 2001, Fornaciari, nonché Sezione IV, 26 aprile 2000, Mantero). In altri termini, nelle imprese di grandi dimensioni non è possibile attribuire tout court all’organo di vertice la responsabilità per l’inosservanza della normativa di sicurezza, occorrendo sempre apprezzare l’apparato organizzativo che si è costituito, sì da poter risalire, all’interno di questo, al responsabile di settore.
Diversamente opinando, del resto, si finirebbe con l’addebitare all’organo di vertice quasi una sorta di responsabilità oggettiva rispetto a situazioni ragionevolmente non controllabili, perché devolute alla cura ed alla conseguente responsabilità di altri.
È altrettanto vero che il problema interpretativo ricorrente è sempre stato quello della individuazione delle condizioni di legittimità della delega: questo, per evitare una facile elusione dell’obbligo di garanzia gravante sul datore di lavoro, ma, nel contempo, per scongiurare il rischio, sopra evidenziato, di trasformare tale obbligo in una sorta di responsabilità oggettiva, correlata tout court alla posizione soggettiva di datore di lavoro.
Sul punto, costituisce affermazione consolidata che il datore di lavoro è il primo e principale destinatario degli obblighi di assicurazione, osservanza e sorveglianza delle misure e dei presidi di prevenzione antinfortunistica.
L’accertamento di fatto compiuto dai giudici di merito con logicità argomentativa sulla sussistenza di tali requisiti per la configurabilità dell’incendio, in linea con l’orientamento consolidato di questa Corte (v., tra le altre, Sez. IV, 2 luglio 2007, Di Giovanni) è incensurabile in questa sede di legittimità.
È stato poi evidenziato, alle luce delle risultanze della consulenza del PM, che tale situazione era stata la conseguenza della inadeguatezza dei presidi antincendio che, se solo fossero stati più efficienti, avrebbero consentito di evitarla. La carenza è stata individuata, così confermando l’ipotesi accusatoria, nella omessa compartimentazione dei locali sottostanti il laminatoio e degli altri ad esso asserviti, nella mancanza di un sistema di intervento ad attivazione automatica e nella mancata dotazione di un sistema a video, o a circuito chiuso, che consentisse l’immediata percezione del pericolo con l’entrata in funzione degli esistenti rilevatori di fumo.
La sentenza impugnata si è altresì soffermata sulla ipotesi prospettata dalla difesa secondo la quale la causa del propagarsi delle fiamme era da individuare nel comportamento dei vigili del fuoco, affrontando adeguatamente la questione della possibile esistenza di un fattore causale, alternativo o quantomeno concorrente, tale da potere costituire elemento di smentita o di correzione della ricostruzione ipotizzata ed accolta.
Ciò il giudicante ha fatto escludendo la sussistenza di elementi di responsabilità ascrivibili ad essi con motivazione convincente che esclude che qui possa porsi alcun profilo di rilevanza di detta condotta.
La ricostruzione operata dalla difesa si poggia infatti su un’asserita condotta colposa dei vigili del fuoco che il giudicante ha escluso, attraverso una analitica disamina critica del materiale probatorio, pur dando atto di maldestre procedure (apertura di botole con l’immissione di aria che aveva favorito la combustione, utilizzo dell’acqua per lo spegnimento delle fiamme che aveva determinato il traboccamento dell’olio, che così era fuoriuscito dalle vasche) seguite per fronteggiare la situazione nella fase iniziale.
Affrontando la questione della possibile rilevanza causale di dette condotte, la Corte di merito ha innanzitutto escluso, effettuando un giudizio controfattuale meramente ipotetico – in linea con quanto puntualizzato dalla nota sentenza delle Sezioni unite 10 luglio 2002, Franzese, improntata al rispetto della regola della certezza processuale – che senza dette manovre l’incendio si sarebbe estinto, evidenziando, alle luce delle risultanze della CTU, che lo stesso sarebbe stato comunque alimentato da altre correnti di aria che avevano accesso dall’esterno e ribadendo la grave carenza dei presidi antincendio come condicio sine qua non del rapido propagarsi e della estesa diffusività delle fiamme.
A ciò aggiungasi che proprio l’iniziale improvvido intervento dei vigili del fuoco, come esattamente sottolineato nella sentenza gravata, sotto certi aspetti, anziché togliere i profili di responsabilità, li aveva accentuati, dando la prova che la particolarità del luogo, caratterizzato da elevato rischio d’incendio per la presenza di olio di raffreddamento, non era stata fatta oggetto di particolari segnalazioni di rischio e di accorgimenti in grado di indirizzare eventuali interventi emergenziali.
Il diverso assunto del ricorrente al riguardo si risolve in una diversa ricostruzione fattuale ed in un diverso apprezzamento di circostanze fattuali, non utilmente prospettabili in sede di legittimità, rivelandosi le doglianze del ricorrente meramente assertive. Non potrebbe quindi il giudice di legittimità sostituirsi ai giudici di merito nella ricostruzione dei fatti e nella valutazione dei medesimi, non essendo la sentenza impugnata incorsa in alcun vizio logico.
Anche il terzo motivo è infondato.
A base dell’affermato giudizio di colpevolezza i giudici di merito hanno posto l’apprezzamento del ruolo svolto dal Vespasiani all’interno del comitato direttivo dell’azienda, capo del settore di produzione e sicurezza, con autonomia gestionale e di spesa.
La Corte di appello, attraverso la disamina degli atti di causa, ha ampiamente argomentato sui profili della ritenuta responsabilità dell’imputato, corrispondendo del resto puntualmente rispetto alle doglianze proposte con l’appello.
I giudici di appello, richiamando anche le argomentazioni del primo giudice, hanno ritenuto che la delega operata dal Vespasiani non valeva ad esonerarlo da responsabilità, essendo taluni obblighi, tra cui quello di valutare i rischi connessi all’attività di impresa e di individuare le misure di protezione, ontologicamente connessi alla funzione ed alla qualifica propria del datore di lavoro e, quindi, non utilmente trasferibili.
Il ragionamento della Corte territoriale è logico e corretto e non è pertanto sindacabile in sede di legittimità.
È utile in proposito ricordare taluni principi affermati da questa Corte in tema di delega del datore di lavoro.
È vero che nelle imprese di grandi dimensioni, come sostenuto dalla difesa, si pone la delicata questione, attinente all’individuazione del soggetto che assume su di sé, in via immediata e diretta, la posizione di garanzia, la cui soluzione precede, logicamente e giuridicamente, quella della (eventuale) delega di funzioni.
In imprese di tal genere, infatti, non può individuarsi questo soggetto, automaticamente, in colui o in coloro che occupano la posizione di vertice, occorrendo un puntuale accertamento, in concreto, dell’effettiva situazione della gerarchia delle responsabilità all’interno dell’apparato strutturale, così da verificare la eventuale predisposizione di un adeguato organigramma dirigenziale ed esecutivo il cui corretto funzionamento esonera l’organo di vertice da responsabilità di livello intermedio e finale (così, esattamente, Sezione IV, 9 luglio 2003, Boncompagni; Sezione IV, 27 marzo 2001, Fornaciari, nonché Sezione IV, 26 aprile 2000, Mantero). In altri termini, nelle imprese di grandi dimensioni non è possibile attribuire tout court all’organo di vertice la responsabilità per l’inosservanza della normativa di sicurezza, occorrendo sempre apprezzare l’apparato organizzativo che si è costituito, sì da poter risalire, all’interno di questo, al responsabile di settore.
Diversamente opinando, del resto, si finirebbe con l’addebitare all’organo di vertice quasi una sorta di responsabilità oggettiva rispetto a situazioni ragionevolmente non controllabili, perché devolute alla cura ed alla conseguente responsabilità di altri.
È altrettanto vero che il problema interpretativo ricorrente è sempre stato quello della individuazione delle condizioni di legittimità della delega: questo, per evitare una facile elusione dell’obbligo di garanzia gravante sul datore di lavoro, ma, nel contempo, per scongiurare il rischio, sopra evidenziato, di trasformare tale obbligo in una sorta di responsabilità oggettiva, correlata tout court alla posizione soggettiva di datore di lavoro.
Sul punto, costituisce affermazione consolidata che il datore di lavoro è il primo e principale destinatario degli obblighi di assicurazione, osservanza e sorveglianza delle misure e dei presidi di prevenzione antinfortunistica.
Ciò dovendolo desumere, anche a non voler considerare gli obblighi specifici in tal senso posti a carico dello stesso datore di lavoro dal decreto legislativo in commento, dalla “norma di chiusura” stabilita nell’articolo 2087 del codice civile, che integra tuttora la legislazione speciale di prevenzione, imponendo al datore di lavoro di farsi tout court garante dell’incolumità del lavoratore.
Va, quindi, ancora una volta ribadito che il datore di lavoro, proprio in forza delle disposizioni specifiche previste dalla normativa antinfortunistica e di quella generale di cui all’articolo 2087 del codice civile, è il “garante” dell’incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale del lavoratore, con la già rilevata conseguenza che, ove egli non ottemperi agli obblighi di tutela, l’evento lesivo gli viene addebitato in forza del principio che “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo” (articolo 40, comma 2, c.p.).
Altrettanto consolidato è il principio che la delega non può essere illimitata quanto all’oggetto delle attività trasferibili.
In vero, pur a fronte di una delega corretta ed efficace, non potrebbe andare esente da responsabilità il datore di lavoro allorché le carenze nella disciplina antinfortunistica e, più in generale, nella materia della sicurezza, attengano a scelte di carattere generale della politica aziendale ovvero a carenze strutturali, rispetto alle quali nessuna capacità di intervento possa realisticamente attribuirsi al delegato alla sicurezza (v., tra le altre, Sez. IV, 6 febbraio 2007, Proc. gen. App. Messina ed altro in proc. Chirafisi ed altro).
È da ritenere, quindi, senz’altro fermo l’obbligo per il datore di lavoro di intervenire allorché apprezzi che il rischio connesso allo svolgimento dell’attività lavorativa si riconnette a scelte di carattere generale di politica aziendale ovvero a carenze strutturali, rispetto alle quali nessuna capacità di intervento possa realisticamente attribuirsi al delegato alla sicurezza.
Tali principi hanno trovato conferma nel decreto legislativo n. 81 del 2008, che prevede, infatti, gli obblighi del datore di lavoro non delegatali, per l’importanza e, all’evidenza, per l’intima correlazione con le scelte aziendali di fondo che sono e rimangono attribuite al potere/dovere del datore di lavoro (v. art. 17).
Trattasi: a) dell’attività di valutazione di tutti i rischi per la salute e la sicurezza al fine della redazione del documento previsto dall’articolo 28 del decreto cit., contenente non solo l’analisi valutativa dei rischi, ma anche l’indicazione delle misure di prevenzione e di protezione attuate; nonché b) della designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi (RSPP).
La sentenza impugnata è in linea con i principi sopra tratteggiati, tenuto conto che il profilo di colpa contestato all’imputato e ritenuto dai giudici di merito era stato ravvisato, in sostanza, nella mancata analisi del rischio incendio e nella violazione degli obblighi di individuare le misure di protezione, di definire il programma per migliorare i livelli di sicurezza, di fornire gli impianti ed i dispositivi di protezione individuali, tutti aspetti che riguardano le complessive scelte aziendali inerenti alla sicurezza delle lavorazioni e che, quindi, coinvolge appieno la sfera di responsabilità del datore di lavoro.
Nella specie, in definitiva, correttamente è stata ravvisata la posizione di garanzia del prevenuto, apprezzandone sia il ruolo di vertice che la diretta competenza nel settore della sicurezza, oltre che i limiti entro cui il medesimo poteva avvalersi della delega a terzi.
Per gli altri profili di censura, contenuti nel terzo motivo, afferenti la contestazione dei profili di colpa ritenuti in capo al Vespasiani, con riferimento ai rilevatori di fumo ed all’impianto di estinzione, valgono i principi affermati in relazione al primo e secondo motivo, con i quali è stato contestato il giudizio di responsabilità del ricorrente.
Anche il quarto motivo è infondato, giacché le censure proposte vorrebbero che in questa sede si procedesse ad una rinnovata valutazione delle modalità mediante le quali i giudici di merito hanno esercitato del potere discrezionale loro concesso dall’ordinamento ai fini della determinazione della pena.
Il ricorrente non considera che, ai fini della determinazione della pena, il potere discrezionale del giudice di merito, correlato all’apprezzamento degli elementi indicati nell’art. 133 c.p., è incensurabile se supportato da coerente e congrua motivazione.
Quanto detto vale, a fortiori, anche per il giudice d’appello, il quale, pur non dovendo trascurare le argomentazioni difensive dell’appellante, non è tenuto ad un’analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti, ma, in una visione globale di ogni particolarità del caso, è sufficiente che dia l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti e decisivi ai fini della concessione o del diniego delle attenuanti e della determinazione della pena, rimanendo implicitamente disattesi e superati tutti gli altri, pur in carenza di stretta contestazione (cfr., ex pluribus, Sez. IV, 19 giugno 2006, Del Frate).
A ciò dovendosi aggiungere, con specifico riguardo al contenuto dell’obbligo di motivazione , che questo si attenua sia nel caso in cui il giudice ritenga di applicare la pena in misura prossima o vicina al minimo edittale (come nella specie in cui è stato effettuato un giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche sulla contestata aggravante), tanto più se si consideri che l’applicazione del minimo edittale non è correlata ad un diritto assoluto dell’imputato (in tal senso, cfr. la sentenza sopra citata).
Analoghe considerazioni valgono per la omessa conversione della pena detentiva in pena pecuniaria.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.