Il Tribunale di Torino ha ritenuto incompatibili con la direttiva 2008/115/CE i delitti di inosservanza all’ordine di allontanamento del questore di cui all’art. 14, commi 5 ter e 5 quater D.L.vo n. 286/1998 e, per l’effetto, ha mandato assolto l’imputato con la formula “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”.
Si segnala un recentissimo provvedimento, con il quale, sulla medesima questione, il Tribunale di Rovereto ha sospeso il procedimento penale e rimesso gli atti per l’interpretazione alla Corte di Giustizia della Unione Europea

Tribunale Ordinario di Torino
Sezione Quarta Penale – Giudice Bosio
Sentenza 5 gennaio 2011
 
[OMISSIS]
Alle ore 11,00 del 3.1.2011 [OMISSIS] veniva tratto in arresto da personale appartenente al Commissariato di P.S. Torino-Barriera Nizza stante la flagranza del reato di cui all’art. 14, comma 5 quater, D. Lgs. 286/98 e successive modifiche, per essersi trattenuto, senza giustificato motivo, nel territorio dello Stato in violazione dell’ordine impartito dal Questore di Torino ai sensi del comma 5 ter del predetto articolo, essendosi già reso inottemperante a precedente ordine di allontanamento emesso sempre dal Questore di Torino in data 22.7.2010.
L’arrestato il giorno 5 gennaio successivo è stato presentato a questo Tribunale in composizione monocratica per la convalida dell’arresto ed il successivo giudizio direttissimo. Questo giudice convalidava l’arresto e ordinava l’immediata liberazione del L. P., non avendo il P.M. richiesto l’adozione di alcuna misura cautelare. Dopo la lettura dell’imputazione, l’imputato richiedeva il giudizio abbreviato. Il giudice disponeva la trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato, con acquisizione del fascicolo del P.M.. Quindi le parti illustravano le loro conclusioni sovra succintamente descritte e il giudice dava lettura del dispositivo allegato al verbale d’udienza.
Dall’esame della documentazione in atti emerge che:
a seguito di decreto di espulsione del Prefetto di Torino in data 22.7.2010, il Questore di Torino, non essendo possibile procedere all’accompagnamento immediato di [OMISSIS] alla frontiera, emetteva nei suoi confronti l’ordine di lasciare il territorio nazionale entro giorni 5 dalla notifica, effettuata nella stessa giornata, del provvedimento in oggetto;
in data 12.11.2010 il Prefetto di Torino decretava nuovamente l’espulsione del [OMISSIS] in quanto non aveva ottemperato al suddetto ordine;
in pari data il Questore di Torino ordinava al predetto cittadino extracomunitario di lasciare il territorio dello stato entro cinque giorni dalla notifica del suddetto provvedimento prefettizio di espulsione, stante l’impossibilità di accompagnamento immediato alla frontiera;
in data 3.1.2011 il [OMISSIS] è stato tratto in arresto per violazione del nuovo ordine di allontanamento dal territorio nazionale.
In sede di convalida, poi, il predetto ha dichiarato di essersi trattenuto in Italia per motivi di lavoro, dovendo mantenere i suoi genitori anziani viventi in Perù, e per problemi di salute, dovendosi periodicamente sottoporre a controllo medico per una pregressa lesione vertebrale.
Ciò premesso in fatto, osserva il giudicante che è d’obbligo verificare preliminarmente l’impatto sulla fattispecie contestata all’imputato della c.d. “direttiva rimpatri” (direttiva 2008/115/CE) emanata dall’Unione Europea il 16.12.2008, con impegno degli stati membri ad adeguare i rispettivi ordinamenti interni entro il 24.12.2010. Il termine in oggetto è decorso e la normativa in materia è rimasta invariata per cui occorre domandarsi:
se la disciplina nazionale in materia di espulsioni (il respingimento alla frontiera non è interessato dalla normativa UE alla pari delle espulsioni disposte “come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale”, art.2) sia conforme alla normativa stessa;
in caso contrario, se la direttiva, per la parte che interessa, sia self-executing, cioè abbia immediata efficacia nell’ordinamento interno anche se non formalmente recepita, e, in caso positivo, quale sia la sorte della incriminazione in oggetto dal 25.12.2010.
Nell’attuale testo unico in materia di immigrazione il soggetto istituzionalmente preposto ad occuparsi del rimpatrio forzoso è il questore (“art. 13 co. 4° t.u.:”L’espulsione è sempre eseguita dal questore con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica”). Per essa sono previste tre fasi:
accompagnamento immediato dello straniero alla frontiera e affidamento dello stesso a un vettore;
ove il rimpatrio immediato non sia possibile (mancanza di documenti, mancato reperimento di un vettore), il questore dispone il trattenimento dello straniero in un c.i.e. per il tempo necessario alla rimozione degli ostacoli che ne impediscono il rimpatrio (art. 14 co.1.t.u.);
se neppure il trattenimento è possibile o se è trascorso il termine massimo di permanenza senza che si sia dato corso al rimpatrio, il questore emette l’ordine di allontanamento volontario entro giorni 5 (art. 14 co. 5° bis t.u.).
L’inosservanza dell’ordine del questore è sanzionata penalmente.
Se lo straniero non ottempera, senza giustificato motivo, all’ordine di allontanamento, è punito con la reclusione da 1 a 4 anni ed è nuovamente espulso (art. 14 co. 5° ter t.u.). Se senza giustificato motivo non ottempera neppure a questa reiterata espulsione è nuovamente punito con la reclusione da 1 a 5 anni ed è ancora espulso (art. 14 co. 5° quater t.u.) con conseguente nuovo trattenimento e/o nuovo ordine di allontanamento in una sequenza senza fine se non viene a cessare la sua presenza in Italia.
La disciplina della direttiva privilegia (salvo ragioni di segno contrario) il rimpatrio volontario dello straniero (denominato cittadino di paese terzo) da attuare mediante la notifica all’interessato di una decisione di rimpatrio, con cui gli si assegna un termine di regola compreso tra sette e trenta giorni per la sua partenza volontaria (art. 7), salvo la possibilità per le autorità dei paesi membri di concedere un termine minore o di non concedere alcun termine in ipotesi espressamente contemplate dalla direttiva.
Qualora l’interessato non si sia allontanato volontariamente nel termine concessogli, ovvero non sia stato concesso alcun termine, ovvero sia sorto in pendenza del termine uno dei rischi che ne avrebbero legittimato la mancata concessione, lo stato è facoltizzato a procedere coattivamente al rimpatrio, eventualmente previa emanazione da parte dell’autorità amministrativa e giudiziaria di un ordine di allontanamento (art.8).
Laddove non sia possibile eseguire immediatamente l’allontanamento coattivo e non possano essere efficacemente applicate altre misure sufficienti e meno coercitive (quali l’obbligo di presentarsi periodicamente all’autorità, la costituzione di una garanzia finanziaria adeguata, la consegna di documenti o l’obbligo di dimorare in un determinato luogo), si potrà disporre il trattenimento dello straniero, la cui durata dovrà essere quanto più breve possibile e sarà mantenuto solo per il tempo necessario all’espletamento diligente delle modalità di rimpatrio (art. 15). La misura dovrà essere riesaminata ad intervalli ragionevoli e dovrà cessare allorchè non sussista più alcuna ragionevole prospettiva di allontanamento del cittadino di paese terzo. Dovrà avvenire di norma negli appositi centri di permanenza temporanei e potrà avere la durata massima di sei mesi, prorogabili sino ad un massimo di 18 mesi complessivi nel caso in cui l’operazione rischi di durare più a lungo a causa della mancata cooperazione da parte dello straniero o dei ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione dai paesi terzi.
Dall’esame e raffronto fra le due discipline succintamente illustrate emerge un reciproco e a dir poco lampante contrasto.
Le criticità riguardano anzitutto la procedura di espulsione e la disciplina nei C.I.E. dal momento che il t.u. vigente stabilisce come regola l’espulsione coattiva immediata dello straniero e contempla il trattenimento come unica misura coercitiva adottabile nelle more dell’accompagnamento coattivo, mentre la direttiva UE privilegia e incentiva la partenza volontaria del cittadino di paese terzo irregolare imponendo all’autorità di concedere allo straniero espulso un termine congruo compreso tra i sette e i 30 giorni per lasciare volontariamente il territorio (mentre l’ordine di allontanamento del questore prevede un termine inferiore – cinque giorni- per lasciare il territorio nazionale), e concepisce il trattenimento come ultima “ratio”, utilizzabile quando altre misure meno afflittive si presentino inadeguate ad assicurare il rimpatrio e sempre che le condizioni che giustificano l’avvio del trattenimento sussistano per la durata del medesimo.
Il contrasto, peraltro, varca il campo amministrativo per estendersi anche al settore penale ed in particolare ai delitti di inosservanza dell’ordine di allontanamento del questore, considerati dal legislatore italiano quale basilare strumento di contrasto all’immigrazione clandestina. Sia ben chiaro: la direttiva non vieta espressamente allo stato membro di prevedere come reato l’inosservanza da parte del cittadino di paese terzo della decisione di rimpatrio (art. 6 direttiva) o del successivo ordine di allontanamento (art. 8 direttiva). Tuttavia l’attuale ordinamento italiano sanziona con la reclusione da uno a quattro anni la fattispecie dell’inosservanza del primo ordine di allontanamento, e con la reclusione da uno a cinque anni dell’ordine reiterato, provvedimento che è parte integrante della procedura di rimpatrio, che ricade, quindi, nella sfera di applicazione della direttiva la quale prevede unicamente il ricorso alle misure coercitive ivi previste e in “extrema ratio” il trattenimento in un apposito centro di permanenza temporanea, per un periodo complessivo massimo di 18 mesi e con le garanzie previste agli art. 15 e 16 della direttiva. Applicando le norme penali in oggetto si violano le garanzie imposte dalla direttiva a tutela della libertà personale dello straniero destinatario di un provvedimento di rimpatrio e che non lo abbia osservato, ricorrendo ad una misura coercitiva qualitativamente diversa e temporalmente più estesa di quella prevista (in caso estremo il trattenimento) dalla direttiva UE. Infatti, nel caso per cui si procede, si applica la detenzione in una casa di reclusione da uno a cinque anni quando per la mancata cooperazione da parte dello straniero interessato (situazione di fatto del tutto simile) è prevista soltanto la proroga del trattenimento a 18 mesi nel centro di permanenza temporaneo (art. 15). E si noti, obiettivo della direttiva non è soltanto istituire norme comuni per un’efficace politica in materia di allontanamento e di rimpatrio, ma anche garantire il “rispetto dei diritti fondamentali” dello straniero (considerando n. 24), fra i quali va sicuramente annoverato il diritto alla libertà personale. Ciò è stato di recente affermato dalla Corte di giustizia europea nella sentenza Kadzoef (sent. 30.11.2009 ric. n. C-357/09) ove è detto che l’art. 15 della direttiva “non consente, quando il periodo massimo di trattenimento previsto da tale direttiva sia scaduto, di non liberare immediatamente l’interessato in quanto egli non è in possesso di validi documenti, tiene un comportamento aggressivo e non dispone di mezzi di sussistenza propri né di un alloggio o di mezzi forniti dallo Stato membro a tale fine”. Non solo, l’aver espressamente previsto che la direttiva “lascia impregiudicata la facoltà degli stati membri di introdurre o mantenere disposizioni più favorevoli alla persone cui si applica, purchè compatibili con le norme in essa richiamate”, “a fortiori” esclude l’introduzione o il mantenimento di norme meno favorevoli nella materia toccata dalla direttiva stessa, fra cui sicuramente vanno annoverate quelle relative ai risvolti penali della inosservanza dell’ordine di allontanamento del questore. Infatti, nelle considerazioni preliminari (considerando n. 29) si afferma che l’obiettivo della direttiva è “stabilire norme comuni in materia di rimpatrio, allontanamento, uso di misure coercitive, trattenimento e divieti d’ingresso” e si sottolinea (considerando n.13) che “l’uso di misure coercitive dovrebbe essere espressamente subordinato al rispetto dei principi di proporzionalità e di efficacia per quanto riguarda i mezzi impiegati e gli obiettivi perseguiti” e non si vede quale utilità ai fini del ritorno in patria del rimpatriando si possa trarre dal trattenerlo in carcere, quando nessuno più si occupa in sede amministrativa del suo allontanamento.
Si potrebbe, però, obiettare che la fattispecie di cui all’art. 14 comma 5 quater D.lvo 286/1998 non verrebbe intaccata dalla direttiva rimpatri, in quanto l’art.2 par. 2 lett. b) della direttiva consente di escludere dal suo ambito di applicazione “gli stranieri sottoposti a rimpatrio come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale in conformità della legislazione nazionale ….”. Senonchè, una siffatta interpretazione estensiva della disposizione, riferita anche alla sanzione penale conseguente al reato di soggiorno irregolare, violerebbe il principio generale dell’effetto utile (vedi infra), rendendo residuale o addirittura escludendo l’ambito di applicazione della direttiva. Conseguentemente, proprio il ricorso ai principi ermeneutici del diritto comunitario avvalora la tesi della incompatibilità della incriminazione in oggetto con la direttiva UE, poiché la norma nazionale sanziona una condotta che presuppone la sola irregolarità dello straniero, cui deve conseguire il rimpatrio ai sensi dell’art. 2 par. 1 della direttiva. Le esclusioni dalla operatività della disciplina UE riguardano, perciò, soltanto i provvedimenti di espulsione disposti dall’autorità giudiziaria a conclusione di procedimenti penali (ad es. restano perfettamente compatibili con la direttiva comunitaria le espulsioni previste come misura di sicurezza dall’art. 235 c.p. ovvero a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione dall’art. 16 D.lgvo 286/1998.)
Poiché alla luce della elaborazione giurisprudenziale, sia comunitaria, che costituzionale il diritto dell’Unione Europea ha uno “status” di primazia (primautè) rispetto al diritto nazionale, compito del giudice nelle varie controversie pendenti (e non è esente la materia penale) è di dare applicazione alle fonti UE dotate di effetto diretto (fra cui rientrano le direttive che prevedono, anche solo in parte, misure “precise, chiare e incondizionate”) nonché applicare il diritto nazionale in modo conforme alla lettera e agli scopi del diritto dell’Unione, all’occorrenza non applicando le norme interne con esso incompatibili. La Corte di giustizia, infatti, ha più volte dichiarato che spetta ai giudici nazionali interpretare “il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art. 249 3° comma del Trattato” (Marleasing, sent. 13.11.1990 C-106/89). Ora, essendo inutilmente scaduto il termine riservato allo Stato italiano per attuare la direttiva, occorre prendere atto che:
questa è estremamente precisa nell’indicare presupposti, modalità esecutive e termini massimi di compressione della libertà personale del cittadino di stato terzo soggetto a rimpatrio, sulle quali lo stato membro potrà intervenire nei dettagli, senza peraltro poter configurare in senso peggiorativo (tipologia e durata) il quadro della detenzione previsto dalla direttiva;
dalla sua applicazione discendono effetti giuridici favorevoli all’individuo (c.d. effetto verticale) dal momento che la direttiva mira a garantire allo straniero una sfera non comprimibile di libertà personale, che invece viene compressa, per le ragioni già sinteticamente esposte, dalle vigenti norme incriminitrici in materia di espulsione.
La norma incriminatrice contestata in rubrica deve, quindi, essere disapplicata da questo giudice, senza che occorra sollevare incidente di legittimità costituzionale dal momento che compete al giudice comune dirimere la questione di compatibilità di una norma nazionale con le disposizioni di una direttiva provvista, come quella in esame, quantomeno per la parte relativa alla libertà personale dello straniero oggetto di rimpatrio, di effetto diretto (Corte Cost. ordinanza 5.11.2008 n. 415).
Si tenga presente che già nella sentenza n.389 del 1989 la Corte Costituzionale modificava il lessico usato per spiegare il fenomeno (non più “non applicazione”, ma “disapplicazione”), in quanto asseriva che vi è “immissione diretta nell’ordinamento interno delle norme comunitarie immediatamente applicabili”, che la norma interna e quella comunitaria sono contemporaneamente vigenti, ancorchè reciprocamente contrastanti, per cui, allo scopo di procedere all’applicazione della prevalente norma comunitaria, è necessario procedere alla “disapplicazione” della norma di grado inferiore da parte del giudice nazionale (nella sostanza, il contrasto veniva risolto ammettendo la “nullità” della norma interna, peraltro vigente in tutti quei rapporti non rientranti direttamente nell’effetto di giudicato della pronuncia del giudice che ne opera la disapplicazione).
Va detto, infine, che nella fattispecie in esame si verte in un caso di incompatibilità parziale fra norma penale interna e diritto comunitario, dal momento che la fattispecie penale in oggetto resta perfettamente compatibile con la direttiva UE in materia di respingimento.
Si tratta a questo punto di verificare se alla conclusione esposta si possa pervenire nel caso in esame, dal momento che la procedura di rimpatrio si è esaurita quando non era ancora spirato il termine riservato allo Stato italiano per adeguare ad essa la legislazione interna. Non v’è dubbio che la condotta antigiuridica abbia avuto inizio quando la direttiva non aveva ancora vigore in Italia; il reato contestato all’imputato ha carattere permanente e la condotta conforme alla fattispecie dell’art. 14 co. 5 ter t.u immigrazione è cessata il giorno 25.12.2010, dal momento che, da quanto si è osservato, la norma in oggetto da tale data non è più applicabile alla fattispecie in esame per contrasto con norme della direttiva comunitaria dotate di effetto diretto. Conseguentemente il segmento di condotta proseguita durante la operatività della direttiva comunitaria non è più reato.
Il fenomeno della disapplicazione della fattispecie incriminatrice non sembra condurre ad un effetto abrogativo implicito derivante dal contrasto con norma sovraordinata e dichiarato dal giudice penale: infatti la norma interna rimane in vigore nell’ordinamento e troverà applicazione in tutti i casi non coperti dalla norma comunitaria nonché nell’ipotesi in cui la norma comunitaria venga abrogata. Auspicabile sarebbe, comunque, un intervento del legislatore, come sollecita la Corte Costituzionale nella citata sentenza n. 389, nell’ottica della certezza del diritto, assoggettando a modifica o ad abrogazione espressa la norma interna disapplicata, allo scopo di depurare l’ordinamento interno “da eventuali incompatibilità o disarmonie con le prevalenti norme comunitarie”.
Da taluno si è affermato che la norma comunitaria si atteggia come causa di giustificazione che opera per effetto delle clausole generali che rendono operante l’esercizio del diritto o l’adempimento di un dovere nei singoli ordinamenti interni, dal momento che una scriminante può trovare la propria fonte in una qualsiasi norma dell’ordinamento (in sostanza l’offesa tipica secondo la norma interna sarebbe scriminata da altra norma). La tesi non sembra condivisibile dal momento che l’operazione ermeneutica riservata al giudice è semplicemente quella di accertare se si è o meno al di fuori del fatto-reato: una condotta che, alla stregua della norma comunitaria prevalente su quella interna, esula all’origine dalla sfera penale, non necessita di una causa che la scrimini.
A questo punto occorre domandarsi: nella legislazione penale italiana come è regolata la situazione di fatto per cui una condotta penalmente rilevante ad un certo punto diventa lecita? L’art. 2 co.2 c.p. è dirimente: “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge posteriore, non costituisce reato”.
Nella specie, per effetto del prevalere delle norme della direttiva comunitaria ad effetto diretto, vigente in Italia dal 25.12.2010, alla fattispecie in esame non è più applicabile la norma interna di cui all’art. 14 comma 5 quater D. Lvo. 286/98 per cui l’imputato viene assolto con formula piena. A questa conclusione si ritiene di pervenire in stretta osservanza agli insegnamenti della importante sentenza pronunciata “in subiecta materia” dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (n. 2451 del 27.9.2007). Ivi è stato precisato che si esula dalla sfera di applicazione dell’articolo 2 co. 2 c.p. quando “il cambiamento avvenuto nella normativa extrapenale, modificando il contesto giuridico, ha determinato una diversità del fatto e non della fattispecie”; nel caso nostro, invece, è intervenuta una restrizione della fattispecie incriminatrice in quanto non più tutte le condotte astrattamente rientranti nella fattispecie di reato restano tali, una parte essendo diversamente regolata dalla direttiva 2008/115/CE.
P.Q.M.
Visto l’art. 530 c.p.p.
assolve l’imputato dal reato ascrittogli perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Torino, 5 gennaio 2011.

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