Con la sentenza n. 11082/2010, le Sezioni Unite Civili si pronunciano sulla competenza a sindacare in materia di provvedimenti di autorizzazione a ispezioni e sequestri in studi professionali emessi dalla Procura della Repubblica e diretti ad accertare eventuali elusioni o evasioni da parte del contribuente-professionista, attribuendo la giurisdizione piena ed esclusiva alle commissioni tributarie.
Suprema Corte di Cassazione
Sezioni Unite Civili
Sentenza 16 febbraio – 7 maggio 2010, n. 11082
[OMISSIS]
Con ricorso notificato alla Procura della Repubblica di Milano, al Nucleo Regionale di Polizia Tributaria di Milano della Guardia di Finanza, al Ministero dell’Economia e delle Finanze, al Presidente delConsiglio dei Ministri, al dr. Frank Di Maio (sostituto procuratore della Repubblica di Milano) nonché al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano, lo Studio Legale e Tributario Associato B.N. e gli associati dr. L.B., avv. E.Z. e avv. E.B. – premesso che: (1) il 20 febbraio 2007 la Guardia di Finanza si era presentata presso la sede dello studio per eseguire una verifica fiscale ai fini delle imposte sul reddito per i periodi 2005, 2006 e 2007; (2) avendo i militari operanti iniziato ad “acquisire ed ispezionare il contenuto specifico di ogni fascicolo e di ogni file presente nei computers dei singoli professionisti, con l’intento di prendere conoscenza di tutto il loro contenuto, ivi compresa la corrispondenza con la clientela e con altri professionisti” (”in particolare” acquisendo “pareri, richieste di chiarimenti e relative risposte, notizie concernenti controversie pendenti o da instaurare, consultazioni circa la legittimità di taluni atti fiscali o societari ovvero rilievi e/o contestazioni cui comportamenti o deliberazioni pregresse avrebbero potuto dar luogo”), il legale rappresentante dello studio aveva eccepito il “segreto professionale con specifico riguardo a ”tutta la corrispondenza intrattenuta con la clientela custodita nei locali in uso ai singoli associati”; (3) il “sostituto Procuratore della Repubblica di turno”, a fronte di una “generica istanza” dei “verificatori” (”ai fine di acquisire ogni tipo di documento utile ai fini dell’accertamento nei confronti dello studio e nella prospettiva di ricercare e reprimere eventuali violazioni alla normativa tributaria”) «emetteva un’autorizzazione», ai sensi dell’art. 52, terzo comma, dpr_633_1972, che consentiva «”l’esame dei documenti custoditi nei locali dello studio, utili ai fini della ricerca e repressione di eventuali violazioni alla normativa tributaria, relativamente ai quali è stato eccepito il segreto professionale”»; (4) «in forza di tale autorizzazione i verificatori acquisivano 4 CD-R e un DVD non riscrivibili a sessione chiusa sui quali avevano scaricato tutti i messaggi di posta elettronica nonché numerosissimi documenti informatici in formato doc, xls e pdf presenti nei PC di sette associati allo studio»; (5) «avendo i verificatori escluso che l’atto fosse da qualificare come pertinente ad un procedimento penale e confermato la natura meramente amministrativa», essi avevano proposto ricorso al T.A.R. della Lombardia deducendo, in particolare, «il carattere lesivo delle modalità con le quali era stato in concreto espletata la verifica, lamentando l’illegittimità del provvedimento in quanto privo di motivazione, generico e sproporzionato, nonché fortemente lesivo dell’interesse professionale alla segretezza della corrispondenza con i propri clienti coperta dal segreto professionale» -, in forza di TRE motivi, chiedevano (con «vittoria di spese ed onorari») di cassare la sentenza n. 6045/08 depositata il 5 dicembre 2008 con la quale il Consiglio di Stato aveva respinto il gravame da essi spiegato avverso la sentenza del T.A.R. la quale aveva dichiarato inammissibile il loro ricorso “per difetto di giurisdizione”, “statuendo che l’autorizzazione rilasciata dal Procuratore della Repubblica sarebbe impugnabile soltanto con l’atto finale impositivo innanzi al giudice tributario”.
Nel proprio controricorso la Procura della Repubblica di Milano, il Nucleo Regionale di Polizia Tributaria di Milano della Guardia di Finanza, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ed il Presidente del Consiglio dei Ministri instavano per il rigetto del ricorso avverso, con vittoria delle spese processali.
Anche il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano notificava controricorso nel quale, con la refusione delle spese, chiedeva di “accogliere il ricorso” e di dichiarare “la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo”.
I ricorrenti depositavano memorie ex art. 378 c.p.c. nonché la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’uomo (3a sezione) 21 febbraio 2008 n. 18497/03.
Il dr. Di Maio non svolgeva attività difensiva.
Motivi della decisione
1. Con la sentenza gravata, il Consiglio di Stato -premesso che «l’autorizzazione rilasciata consentiva di esaminare i documenti custoditi presso lo studio (documenti rispetto ai quali era stato eccepito il segreto professionale) ai fini della ricerca e della repressione di eventuali violazioni della normativa tributaria»; «escluso che nel caso di specie l’attività di indagine svolta dai militari della Guardia di Finanza fosse diretta all’accertamento di fatti penalmente rilevanti» – ha respinto l’appello affermando che il provvedimento si colloca «all’interno di un procedimento di verifica fiscale, di natura impositiva (in quanto finalizzato all’accertamento dell’effettivo assolvimento dell’obbligazione tributaria)» e tanto («secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale») «ne comporta la impugnabilità soltanto con l’atto finale impositivo innanzi al giudice tributario» essendo («Cass. pen. , sez. V, 3 dicembre 2001 n. 15230») «il provvedimento del procuratore della Repubblica, autorizzativo della perquisizione del domicilio del contribuente (ex artt. 52, comma 2, del DPR 26 ottobre 1972, n. 633, e 33, comma 1, del dpr_600_1973) un atto amministrativo attraverso il quale l’amministrazione finanziaria esercita il potere impositivo e partecipa direttamente della natura amministrativa del provvedimento considerato, condizionandone la legittimità, ed è pertanto sindacabile dal giudice tributario in base ai principi generali che regolano l’attività dello Stato».
Secondo il giudice a quo, quindi, «sussiste effettivamente la giurisdizione del giudice tributario» perché questo deve «ritenersi competente ogniqualvolta si faccia questione di uno specifico rapporto tributario (o di sanzioni inflitte da uffici tributari), dal cui ambito restano escluse solo le controversie in cui non è direttamente coinvolto un rapporto tributario o viene impugnato un atto generale ovvero venga chiesto il rimborso di una somma indebitamente versata a titolo di tributo» essendo «la giurisdizione tributaria concepita come comprensiva di ogni questione relativa all’esistenza e alla consistenza dell’obbligazione tributaria (Cass. SS.UU., 4 aprile 2006, n. 7806)».
Lo stesso giudice, di poi, ha affermato che “nel caso di specie” mancano “i presupposti, soggettivi ed oggettivi, necessari ad affermare la giurisdizione del giudice amministrativo”:
– «sotto il profilo soggettivo», perché «il Procuratore della Repubblica» non può «essere considerato un organo amministrativo, titolare di un potere discrezionale di autorizzazione, idoneo a sacrificare in generale i diritti di liberta del cittadino contribuente sub specie della violazione del principio della riservatezza della sua corrispondenza (intrattenuta con il professionista di fiducia)» in quanto il suo «provvedimento autorizzatorio», «partecipando direttamente della natura amministrativa (tributaria) del procedimento in cui si inserisce», «non è finalizzato direttamente alla tutela di un interesse pubblico o fiscale da valutare comparativamente rispetto all’interesse privato in gioco (con conseguente natura recessiva della posizione del cittadino), ma implica un controllo di carattere sostanziale sulla sussistenza in concreto degli indizi di violazione delle leggi tributarie segnalati dagli uffici finanziari e sulla loro gravità» per cui «la potestà valutativa spettante al Procuratore della Repubblica è espressione di un controllo giudiziale, sia pur sommario e senza contraddittorio, svolto in posizione di terzietà sulla richiesta degli uffici finanziari e in funzione della tutela dei diritti del cittadino, cosi che non vi è nell’esercizio di tale potere alcuna discrezionalità amministrativa in senso stretto (volta, com’è noto, alla tutela dell’interesse pubblico della cui cura specifica è titolare l’amministrazione)»;
– «sotto il profilo oggettivo», perché (a) «la predetta autorizzazione non può neppure configurarsi come esercizio di attività amministrativa in senso stretto» atteso che «in materia tributaria anche l’attività di verifica, in quanto finalizzata all’accertamento dell’esatto adempimento dell’obbligazione tributaria, risulta del tutto priva di qualsiasi carattere discrezionale» («circostanza questa che esclude l’esercizio da parte degli uffici finanziari di poteri amministrativi sindacabili innanzi al giudice amministrativo») e (b) «l’obbligazione tributaria nasce soltanto quando si siano realizzati tutti i presupposti stabiliti dalla legge, senza alcuna concorrenza di poteri discrezionali da parte degli uffici finanziari» per cui «la posizione del contribuente deve essere qualificata sempre e soltanto di diritto soggettivo e giammai di interesse legittimo»: «significativamente», aggiunge il giudice a quo, «è stato affermato che la giurisdizione del giudice amministrativo in materia tributaria può riguardare gli atti estranei all’elencazione contenuta dall’articolo 19 del D. Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, purché abbiano carattere di atti amministrativi e siano espressione di poteri discrezionali (cosa che la restringe ai regolamenti e agli atti generali, così C.d.S., sez. IV, 15 febbraio 2002, n. 948)».
Per lo stesso giudice, inoltre, «la giurisdizione amministrativa, non può neppure trovare fondamento sulla disposizione contenuta nell’ultimo comma dell’articolo 7 della legge_212_2000, secondo cui “la natura tributaria dell’atto non preclude il ricorso agli organi di giustizia amministrativa quando ne ricorrano i presupposti”» in quanto, «coerentemente ai principi costituzionali delineati dagli articoli 24 e 113», la «giustiziabilità degli atti provenienti dalla pubblica amministrazione» è «tuttavia subordinata alla specifica ricorrenza dei presupposti stabiliti dalla legge, presupposti che nel caso di specie non sussistono».
Il Consiglio di Stato, inoltre, ha ritenuto insussistente («non può considerarsi sussistente») «alcun vulnus ai principi predicati dall’articolo 24 e 113 della Costituzione per il fatto che l’impugnazione del provvedimento autorizzatorio del Procuratore della Repubblica può essere proposta solo col provvedimento impositivo finale» anche nella «interessante prospettazione degli appellanti secondo cui il procedimento potrebbe concludersi senza alcun provvedimento impositivo (qualora si accerti che l’obbligazione tributaria è stata perfettamente adempiuta) e che in tal caso il provvedimento autorizza torio resterebbe inammissibilmente sottratto ad ogni sindacato giurisdizionale» in quanto:
– «la natura amministrativa (tributaria) dell’atto autorizzativo non può dipendere dal fatto che il procedimento tributario si concluda o meno con un provvedimento tributario (accertamento)»;
– «anche ad ammettere che l’atto autorizzatorio abbia un’ immediata, concreta ed effettività lesività, quest’ultima si riverbera esclusivamente su di una posizione di diritto soggettivo, e non già di interesse legittimo» giusta «quanto precisato in ordine alla natura del controllo svolto dal Procuratore della Repubblica ed alla impossibilità di predicarne la natura di organo amministrativo in senso stretto; a ciò consegue che l’eventuale tutela del diritto alla riservatezza della corrispondenza, in tesi violato nella presente fattispecie, se ammissibile, deve essere azionata davanti al giudice dei diritti».
Per «completezza espositiva», infine, il Consiglio di Stato ha:
– respinto «la richiesta di rinvio pregiudiziale ex art. 234 del Trattato CEE» («avanzata sin dal primo grado di giudizio») «in quanto il rinvio pregiudiziale concerne esclusivamente le questioni di interpretazione del Trattato, di validità ed interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni della Comunità e della BCE e di interpretazione degli statuti degli organismi creati con atto del Consiglio, quando sia previsto dagli statuti stessi», cioè in «ipotesi che non ricorrono nel caso di specie»;
– ritenuto la «manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale» degli artt. 52 DPR 26 ottobre 1972 n. 633 e 33 DPR 29 settembre 1973 «in relazione alle prescrizioni dell’articolo 8 della Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, non apparendo violati, nei sensi in cui deve essere interpretata l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria, anche in relazione al controllo giurisdizionale in posizione di terzietà di cui è espressione, i diritti fondamentali indicati dalla parte appellante, a nulla rilevando che si sarebbe in presenza di una “autorizzazione larga”, proprio perché non si è in presenza di una procedura finalizzata all’accertamento di fatti penalmente rilevanti, bensì di una procedura amministrativa finalizzata all’esercizio della pretesa tributaria».
2. I ricorrenti chiedono di cassare tale decisione in forza di tre motivi.
A. Con il primo essi – ritenuta affetta da «errore di fondo» la tesi del giudice a quo laddove configura «l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica che consente alla Guardia di Finanza di derogare al segreto professionale come mero atto interno al procedimento tributario» – denunziano «violazione» degli artt. 24 e 113 della Cost., oltre che dell’art. 117 Cost. «in riferimento agli artt. 6 e 13 cedu», come pure «violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 19 del D. Lgs. n. 546 del 1992, nonché dell’art. 7 della legge n. 212/2000»; in subordine l’«incostituzionalità degli artt. 2 e 19 del D. Lgs. n. 546/1992, nonché dell’art. 7 della legge n. 212/2000 per violazione degli artt. 3, 24, 113 e 117 Cost., quest’ultimo con riferimento agli artt. 6 e 13 CEDU» assumendo che «l’autorizzazione del Procuratore che consente di perforare il segreto professionale è un atto immediatamente lesivo “dell’interesse del professionista alla riservatezza della corrispondenza con i propri clienti e al rispetto del segreto professionale», cioè di «un interesse autonomo e distinto rispetto a quello che potrebbe essere pregiudicato da un eventuale accertamento tributario», interesse che «viene leso nel momento stesso in cui la Guardia di Finanza, in forza dell’autorizzazione del Procuratore, acquisisce e prende visione degli atti secretati ed a prescindere dall’eventuale successiva contestazione di illeciti tributari» per cui «il danno da loro subito nel caso di specie deve essere qualificato come un danno ad effetti immediati, al quale essi avrebbero dovuto poter reagire con un’iniziativa giurisdizionale altrettanto immediata, essendo insufficiente e, in definitiva, inutile una tutela attivabile solo in futuro, allorché l’Amministrazione finanziaria avrà provveduto a notificare l’avviso di accertamento».
I ricorrenti osservano:
– «se è vero che l’autorizzazione de qua s’inserisce nel procedimento di verifica fiscale, non è detto che tale procedimento sfoci in un accertamento, né che l’eventuale accertamento venga impugnato dinanzi al giudice tributario e, quand’ anche tutto ciò si verificasse, non è neanche detto che l’accertamento fiscale si fondi sui documenti in relazione ai quali si pone il problema della sussistenza del segreto professionale» potendosi «benissimo verificare il caso che la questione relativa all’illegittimità dell’autorizzazione e dell’acquisizione di documentazione riservata (e la connessa questione del dissequestro e restituzione) possa non giungere mai innanzi al giudice tributario, pur essendosi prodotta la lesione dell’interesse del professionista, giuridicamente tutelato, al rispetto del segreto professionale», tenuto conto («a ben vedere») che «le contestazioni che possono essere mosse dall’Amministrazione finanziaria ad un professionista non possono che fondarsi sulla documentazione inerente la contabilità del professionista medesimo e non certo su notizie che riguardano i suoi clienti», «con la conseguenza che, con estrema probabilità, l’accertamento, se vi sarà, si fonderà esclusivamente su documenti in relazione ai quali non si pone nessun problema di legittima acquisizione in riferimento al segreto professionale»;
«anche qualora la questione della legittimità dell’autorizzazione e degli atti ispettivi su di essa fondati arrivasse dinanzi al giudice tributario, quest’ultimo non avrebbe il potere di annullare né la prima, ne i secondi, potendo annullare esclusivamente l’eventuale avviso di accertamento» perché «l’illegittimità dell’autorizzazione diviene, nell’ambito del processo tributario, un mero motivo di invalidità dell’accertamento, sub specie di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite» di tal che «il giudizio tributario costituisce una tutela futura ed eventuale, mediata e priva di effettività».
Secondo i ricorrenti, quindi, «l’autorizzazione contemplata dall’articolo 52, comma 3, del DPR n. 633/72, quando consenta la perforazione del segreto professionale coinvolgendo elementi di conoscenza relativi ai clienti del professionista verificato, non può non postulare una tutela giurisdizionale immediata, cosi come immediati sono gli effetti pregiudizievoli che essa può produrre» perché «la tesi dell’insindacabilità diretta dell’autorizzazione e degli atti ispettivi conseguenti, subordinando il controllo di legittimità su un atto che incide immediatamente sulla posizione soggettiva del professionista all’impugnazione di altro atto, futuro ed eventuale, si risolve nella palese violazione degli artt. 24 e 113 Cost., nonché dell’art. 111 Cost. in riferimento agli artt. 6 e 13 CEDU» e deve essere, «di conseguenza», «scartata, in applicazione del canone ermeneutico secondo cui, fra due o più interpretazioni astrattamente possibili, va privilegiata quella conforme a Costituzione».
In ipotesi di conferma della tesi della non impugnabilità diretta ed immediata dell’autorizzazione rilasciata dal Procuratore della Repubblica ai sensi dell’art. 52, comma 3, del DPR n. 633/1972, i medesimi ricorrenti chiedono, quindi, di sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 2 e 19 del D. Lgs. n. 546/1992, nonché dell’art. 7 della legge n. 212/2000, nella parte in cui escluderebbero strumenti di tutela giurisdizionale avverso la suddetta autorizzazione, diversi ed ulteriori rispetto all’impugnazione dell’avviso di accertamento su di essa fondato innanzi al giudice tributario, per violazione degli artt. 3, 24, 113 e 117 Cost., «quest’ultimo con riferimento agli artt. 6 e 13 della CEDU», esponendo:
«in punto di rilevanza», che «le disposizioni censurate, se interpretate nel senso criticato, determinerebbero il rigetto del presente motivo»; – «sulla non manifesta infondatezza»;
(1) che «il professionista che intenda contestare la legittimità dell’autorizzazione del Procuratore della Repubblica e degli atti ispettivi conseguenti, ritenendoli lesivi del suo interesse alla riservatezza della corrispondenza con i propri clienti e al rispetto del segreto professionale, nel caso in cui non sia destinatario di un avviso di accertamento su di essi fondato (come nel caso di specie), non potrebbe adire, a tutela di tali interessi, alcun giudice», e ciò in «violazione dei diritto di agire in giudizio garantito dall’art. 24 Cost.»;
(2) l’«insindacabilità» dell’«autorizzazione prevista dall’art. 52, comma 3, del DPR n. 633/72» («configurabile come atto della pubblica amministrazione») «si risolverebbe in una violazione dell’art. 113 della Costituzione, per il quale “contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria”, tutela che “non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti”»;
(3) l’impugnabilità degli «atti amministrativi autonomamente e immediatamente lesivi solo al verificarsi di un evento futuro e incerto (l’accertamento fiscale che si fondi proprio sulle risultanze istruttorie che si intendono contestare) e li rende impugnabili (peraltro incidentalmente) innanzi ad un giudice (quello tributario) che, intervenendo a lesione già realizzata, non è strutturalmente in grado di assicurare la necessaria effettività della tutela giurisdizionale» costituisce «evidente irragionevolezza del tessuto normativo», con conseguente «lesione anche dell’art. 3 Cost.».
Secondo i ricorrenti «infine viene in considerazione la violazione degli artt. 6 e 13 della CEDU e conseguentemente dell’art. 117, co. 1 Cost. (cfr. Corte costituzionale, sent. 348 e 349 del 2007)» perché:
«l’art. 6 della CEDU garantisce espressamente ad ogni persona la tutela giurisdizionale dei suoi diritti davanti ad un giudice indipendente ed imparziale costituito per legge … quindi il diritto ad un tribunale»;
«l’art. 13 esige che in ogni ordinamento interno vi sia una “autorità” cui sia possibile rivolgere un ricorso “effettivo”r ogni qualvolta siano lesi i diritti o le libertà riconosciuti dalla CEDU “anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nelle loro funzioni ufficiali”»: «per la Corte di Strasburgo, l’esigenza di proteggere il segreto professionale ricade sotto le garanzie dell’art. 8 CEDU (sentenza Smirnov c. Russia, 7 giugno 2007)»;
«per interpretazione costante, il requisito della effettività è soddisfatto solo quando l’autorità competente abbia il potere di disporre la cessazione materiale del comportamento lesivo, ovvero l’annullamento dell’atto che l’autorizza, nonché disporre le eventuali riparazioni conseguenti».
Per i ricorrenti «il giudice tributario non risponde a tutte queste caratteristiche, potendo conoscere dell’atto solo incidentalmente, quando sia stato emanato l’eventuale atto d’accertamento e non avendo il potere di caducare gli effetti non fiscali nel frattempo prodotti».
A conclusione della censura si formula il seguente “quesito di diritto”: “se il Consiglio di Stato, affermando che l’autorizzazione adottata dal Procuratore della Repubblica è impugnabile soltanto innanzi al giudice tributario unitamente all’avviso di accertamento fiscale, ha dato un’interpretazione della normativa vigente in materia (artt. 2 e 19 del D. Lgs. n. 546/1992, art. 1 della legge n. 212/2000) erronea e contrastante con gli artt. 24 e 113 Cost., nonché dell’art. 111 Cost. in riferimento agli artt. 6 e 13 CEDU, in quanto deve ritenersi che tali norme – interpretate correttamente, alla luce del dettato costituzionale – non escludono il diritto del professionista ad una immediata ed effettiva tutela giurisdizionale avverso la suddetta autorizzazione, trattandosi di atto immediatamente ed autonomamente lesivo dell’interesse al rispetto del segreto professionale e dovendosi altrimenti dubitare della legittimità costituzionale degli artt. 2 e 19 del D. Lgs. n. 546/1992, nonché dell’art. 7 della legge n. 212/2000 in riferimento agli artt. 3, 24, 113 e 111 Cost.”.
B. Con il secondo motivo i ricorrenti contestano l’affermazione del Consiglio di Stato secondo la quale il giudice tributario è da ritenersi “competente ogniqualvolta si faccia questione di uno specifico rapporto tributario (o di sanzioni inflitte da uffici tributari), dal cui ambito restano escluse solo le controversie in cui non è direttamente coinvolto un rapporto tributario o viene impugnato un atto generale ovvero venga chiesto il rimborso di una somma indebitamente versata a titolo di tributo” e denunziano «violazione dell’art. 1, comma 4, della legge n. 212/2000» adducendo di aver «adito il giudice amministrativo a tutela di un interesse giuridico di cui essi sono titolari non in qualità di contribuenti, bensì nella loro qualità di professionisti tenuti a mantenere riservate le informazioni sulla propria clientela» per cui «oggetto di contestazione non è mai stato l’accertamento, bensì il fatto che la Guardia di Finanza, nel corso dell’ispezione fiscale, abbia sequestrato anche numerosi documenti e files contenenti notizie sulla clientela, in forza di un’autorizzazione rilasciata dal Procuratore, che si ritiene illegittima», quindi a tutela di un interesse di «natura diversa da quella tributaria» in quanto «il segreto professionale è una prerogativa del professionista non collegata al suo essere anche contribuente»: per i «limiti costituzionali della giurisdizione tributaria», quindi, il Consiglio di Stato, secondo i ricorrenti, avrebbe dovuto applicare il quarto comma dell’art. 7 detto avendo il legislatore «voluto garantire», «la giustiziabilità di tutti gli atti lato sensu tributari che possono comportare un pregiudizio ad un interesse estraneo al rapporto tra il fisco e contribuente, prevedendone l’impugnabi-lità dinanzi al giudice amministrativo».
I ricorrenti, quindi, chiedono (”quesito”) “se il Consiglio di Stato ha errato nell’affermare che la legittimità degli atti impugnati (l’autorizzazione di cui all’art. 52, comma 3, del DPR n. 633/72 ed i conseguenti atti ispettivi posti in essere dalla Guardia di Finanza) sarebbe sindacabile soltanto in via incidentale dal giudice tributario e non direttamente dal giudice amministrativo, qualificando l’impugnativa proposta nella specie come inerente ad “uno specifico rapporto tributario”, mentre deve ritenersi che il professionista, allorché impugna dinanzi al giudice amministrativo l’autorizzazione di cui all’art. 52, comma 3, del DPR 633/72 e gli atti ispettivi conseguenti, lamentando la lesione del suo interesse alla riservatezza della corrispondenza con i propri clienti ed al rispetto del segreto professionale, agisce a tutela di un interesse giuridico che non ha natura tributaria, sicché, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente la giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo in applicazione dell’art. 1, comma 4, della legge n. 212/2000, ai sensi del quale i ricorsi dei cittadini avverso atti dell’amministrazione tributaria lesivi di posizione soggettive diverse da quelle azionabili dinanzi al giudice tributario devono essere indirizzati al giudice amministrativo”.
C. Con il terzo (ultimo) motivo i ricorrenti contestano l’affermazione del Consiglio di Stato secondo la quale mancherebbero i «presupposti», «soggettivi ed oggettivi», necessari per «affermare la giurisdizione del giudice amministrativo» e denunziano «violazione delle regole di riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo e, in particolare, degli artt. 103 e 113 Cost.», adducendo, in primo luogo, che i «diversi passaggi motivazionali della decisione impugnata si pongono l’uno in insanabile contrasto con l’altro» perché «dapprima viene affermato che l’autorizzazione del Procuratore potrebbe essere sindacata dal solo giudice tributario poi si afferma che essa sarebbe “espressione di un controllo giudiziale svolto in posizione di terzietà”» (così ponendosi «il problema dell’individuazione del giudice dell’impugnazione») ed «infine viene adombrata la giurisdizione del giudice ordinario».
Aggiungono :
«il professionista che impugna l’autorizzazione di cui all’art. 52, comma 3, del DPR 633/1972 agisce a tutela di un suo interesse legittimo» per cui sussiste la «giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo» ex artt. 103 e 113 Cost.;
«l’autorizzazione di cui all’art. 52, comma 3, DPR n. 633/1972 costituisce l’esito di un procedimento amministrativo» e ne assume «necessariamente» la natura;
«tale procedimento si inserisce nel procedimento di accertamento fiscale ma è dotato di una propria autonomia, non avendo una finalità tipicamente “tributaria”»;
– «l’autorizzazione» in questione «presuppone una valutazione ampiamente discrezionale» atteso che il Procuratore è chiamato a considerare «non solo l’esistenza dei “gravi” indizi di violazione tributarie e la fondatezza o meno del segreto professionale eccepito, ma anche, e soprattutto, se detti indizi siano tanto gravi da legittimare la deroga al segreto ( Cass., trib., 23 aprile 2007 n. 9656)».
Secondo il ricorrenti «la lesione da loro sofferta è riconducibile ad un’autorizzazione» siccome «espressione del potere amministrativo discrezionale attribuito al Procuratore» per cui «la loro posizione giuridica soggettiva non può che essere qualificata come di interesse legittimo» tenuto conto che «configurano situazioni soggettive di interesse legittimo non soltanto quelle che come tali nascono in capo al loro titolare ma anche quelle che, pur qualificandosi genericamente ed in astratto come diritto soggettivo, nel raffrontarsi con l’esercizio del potere amministrativo, vengono “degradate” ad interessi legittimi»; la «natura “fondamentale” del diritto alla riservatezza della corrispondenza non esclude la degradabilità del diritto ad interesse legittimo quando esso sia inciso dall’illegittimo esercizio della funzione amministrativa», con «conseguente» sussistenza della giurisdizione amministrativa, avendo la Corte Costituzionale (sentenza n. 140 del 2007) «evidenziato che non esiste “alcun principio o norma nel nostro ordinamento che riservi esclusivamente al giudice ordinario, escludendone il giudice amministrativo, la tutela di diritti costituzionalmente protetti”».
In definitiva, per i ricorrenti, essendo il «criterio generale di riparto della giurisdizione fondato sulla natura della situazione giuridica di cui si chiede la tutela», nel caso «la giurisdizione spetta al giudice amministrativo e non al giudice ordinario» perché essi «agiscono a tutela di un interesse legittimo».
La censura è conclusa con il seguente “quesito”: “il segreto professionale e la riservatezza epistolare, allorquando sono incisi dall’autorizzazione del Procuratore, si configurano come interessi legittimi e devono, quindi, essere tutelati dinanzi al giudice amministrativo ai sensi del combinato disposto degli artt. 103 e 113 Cost.”.
3. Il ricorso deve essere respinto perché infondato.
A. L’impugnazione proposta investe la individuazione del giudice – che i ricorrenti ritengono essere quello amministrativo (il quale, però, la ha negata affermando quella del giudice tributario) – cui il vigente ordinamento attribuisce la potestà di conoscere della presente controversia, avente ad oggetto (come accertato dal Consiglio di Stato) unicamente la richiesta di «annullamento» (per «illegittimità alla stregua di quattro articolati motivi») dell’«autorizzazione di cui all’art. 52, comma 3, del DPR 26 ottobre 1972 n. 633» concessa dal Procuratore della Repubblica alla Guardia di Finanza (alla quale «il legale rappresentante dello studio associato» aveva eccepito «il segreto professionale con riguardo alla corrispondenza intrattenuta con la clientela») «per l’esame e/o l’acquisizione di documentazione in deroga al segreto professionale».
Il thema decidendi, pertanto, va individuato nell’oggetto detto, al quale sono del tutto estranei sia le concrete “modalità” di svolgimento delle operazioni di verifica fiscale, sia l’assunta finalizzazione delle indagini ad acquisire (anche) notizie utili riguardanti i clienti dello studio e/o dei professionisti associati, sia, ancora, il preteso “sequestro” di documenti e di files informatici (cosa del tutto diversa dalla mera acquisizione degli stessi e dal potere di estrarre copia, anche informatica per i documenti che lo consentono), sia, altresì ed infine, ogni questione involgente il “dissequestro” od anche solo (specie in ipotesi di mancata adozione di un provvedimento impositivo fondato sui documenti e sulle notizie in ordine all’esame e/o all’acquisizione delle quali è stato eccepito il “segreto professionale”) la restituzione dei documenti e dei files acquisiti.
Di conseguenza esula dalla presente controversia, perché non posta all’esame del giudice a quo, in particolare, ogni questione attinente al (od involgente) il potere riconosciuto all’Ufficio dal terzo comma (ultimo inciso) dell’art. 54 del DPR n. 633 del 1972 di “procedere alla rettifica indipendentemente dalla previa ispezione della contabilità del contribuente qualora l’esistenza di operazioni imponibili per ammontare superiore a quello indicato nella dichiarazione, o l’inesattezza delle indicazioni relative alle operazioni che danno diritto alla detrazione, risulti in modo certo e diretto, e non in via presuntiva, da verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti, nonché da altri atti e documenti in suo possesso”, quindi anche nei confronti dei clienti dello studio e/o dei professionisti associati in forza delle risultanze dell’”ispezione” de qua.
B. L’art. 52 DPR 26 ottobre 1972 n. 633, come noto, regola articolatamente “accessi, ispezioni e verifiche” che gli uffici (come la Guardia di Finanza nell’esercizio dei suoi compiti istituzionali di collaborazione con gli stessi) “possono disporre” (primo comma) “nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, agricole, artistiche o professionali per procedere ad ispezioni documentali, verificazioni e ricerche e ad ogni altra rilevazione ritenuta utile per l’accertamento dell’imposta e per la repressione dell’evasione e delle altre violazioni”.
Da quest’ultimo disposto discende, univocamente, che la complessiva attività (”accessi, ispezioni e verifiche”) prevista (quindi consentita) dalla norma è solo quella finalizzata all’”accertamento dell’imposta” nonché alla “repressione dell’evasione e delle altre violazioni”.
“L’ispezione documentale”, di poi ed in particolare, per il quarto comma (testo sostituito dall’art. 2 D. Lg.vo 20 febbraio 2004 n. 52) dello stesso art. 52, “si estende a tutti i libri, registri, documenti e scritture, compresi quelli la cui tenuta e conservazione non sono obbligatorie, che si trovano nel locali in cui l’accesso viene eseguito, o che sono comunque accessibili tramite apparecchiature informatiche installate in detti locali”: siffatta estensione, intuitivamente, si fonda su di una presunzione (della quale non interessa qui indagare la natura) di inerenza all’attività esercitata della documentazione che si trova “nei locali in cui l’accesso viene eseguito” o che sia “comunque ” accessibile “tramite apparecchiature informatiche installate in detti locali”.
C. Per esercitare il potere di accesso, prodromico a quelli di verifica e di ispezione, la norma impone che gli ispettori siano muniti, in via generale, di “apposita autorizzazione che ne indica lo scopo, rilasciata dal capo dell’ufficio da cui dipendono”, nonché, per “accedere in locali che siano adibiti anche ad abitazione”, pure dell’”autorizzazione del procuratore della Repubblica”, e per “I’accesso in locali diversi da quelli indicati nel precedente comma”, della “previa autorizzazione del procuratore della Repubblica”, che può essere (richiesta e) concessa “soltanto in caso di gravi indizi di violazioni delle norme del presente decreto, allo scopo di reperire libri, registri, documenti, scritture ed altre prove delle violazioni” (secondo comma).
Il terzo comma (come modificato dall’art. 18 della legge 30 dicembre 1991 n. 413), che interessa la fattispecie, dispone, poi, che “è in ogni caso necessaria l’autorizzazione del procuratore della Repubblica o dell’autorità giudiziaria più vicina per procedere durante l’accesso a perquisizioni personali e all’apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili e per l’esame di documenti e la richiesta di notizie relativamente ai quali è eccepito il segreto professionale ferma restando la norma di cui all’art. 103 del codice di procedura penale”.
Dall’analisi del delineato complesso normativo discende che nelle ipotesi espressamente previste la sola “apposita autorizzazione che ne indica lo scopo, rilasciata dal capo dell’ufficio da cui dipendono”, di per sé, non consente agli ispettori di “accedere” in “locali adibiti anche ad abitazione” o “in locali diversi da quelli indicati nel precedente comma” (nei quali ultimi “l’accesso può”, tuttavia, “essere eseguito, previa autorizzazione del procuratore della Repubblica, in caso di gravi indizi di violazioni delle norme del presente decreto, allo scopo di reperire libri, registri, documenti, scritture ed altre prove delle violazioni”) né, durante l’accesso “, di procedere (oltre che “a perquisizioni personali e all’apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili”) all’”esame di documenti” ed alla “richiesta di notizie relativamente ai quali è eccepito il segreto professionale” (”ferma restando la norma di cui all’art. 103 del codice di procedura penale”).
Dal necessario collegamento logico, oltre che giuridico, delle afferenti previsioni normative si evince che (2) i “documenti” e le “notizie” considerati nel terzo comma sono sempre e soltanto quelli inerenti lo scopo dell’accesso ispettivo, ovverosia (primo comma) “procedere ad ispezioni documentali, verificazioni e ricerche e ad ogni altra rilevazione ritenuta utile per l’accertamento dell’imposta e per la repressione dell’evasione e delle altre violazioni” e (2) l’opposizione del “segreto professionale”, di regola, impedisce sia l’esame dei “documenti” che l’acquisizione delle “notizie” – altrimenti possibili -oggetto di quel segreto da parte degli stessi ispettori fiscali.
D. Il “segreto professionale”, come ovvio, può essere eccepito unicamente dal contribuente la cui attività è oggetto di verifica e che, per la sua qualità professionale, sia tenuto ad osservarlo: da tale intima e, logicamente, inscindibile identità soggettiva discende che (diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti) non è legittimo (né possibile) tenere distinte, nello stesso soggetto, la posizione del “professionista” (vincolato al segreto professionale) e quella del “contribuente” (assoggettabile a verifica fiscale) atteso che l’art. 52 riflette esclusivamente le operazioni di verifica del “contribuente – professionista”: del contribuente, perché l’ispezione mira a verificare la posizione fiscale dello stesso; del professionista, perché l’autorizzazione mira a garantire la tutela del segreto professionale opponibile solo dal contribuente che sia anche professionista nonché, specularmente, dal professionista in verifica perché contribuente.
Peraltro la necessità, od anche la (mera) opportunità, di sottoporre a controllo, ai fini fiscali, pure gli atti “secretati” dal professionista-contribuente, discende dalla ovvia possibilità, offerta da tale esame, di riscontare l’eventuale esistenza di “attività professionali” fiscalmente rilevanti non dichiarate o dichiarate in misura minore e/o comunque non risultanti dalle scritture contabili e/o dagli atti non secretati: «le contestazioni che possono essere mosse dall’Amministrazione finanziaria ad un professionista», infatti, diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti, ben possono fondarsi anche su «notizie che riguardano i suoi clienti» se quelle “notizie sono rivelatrici di fonte reddituale non o diversamente dichiarata.
Nel caso gli stessi ricorrenti lamentano l’acquisizione di “pareri, richieste di chiarimenti e relative risposte, notizie concernenti controversie pendenti o da instaurare, consultazioni circa la legittimità di taluni atti fiscali o societari ovvero rilievi e/o contestazioni cui comportamenti o deliberazioni pregresse avrebbero potuto dar luogo”, ovverosia, in definitiva, solo di fatti che riguardano tutti l’attività professionale esercitata dallo studio e/o dai suoi associati e, quindi, direttamente, la redditività (ai fini fiscali propri dello studio e/o del professionista, contribuenti ispezionati) , vera o logicamente presumibile, tradibile dalla stessa.
E. Il “segreto professionale”, peraltro, non copre (e, quindi, non può essere opposto per coprire) tutta e ogni attività professionale perché lo stesso (come è stato già rilevato anche dalla dottrina) è previsto a esclusiva tutela del cliente: la Corte Costituzionale, infatti (sentenza depositata il giorno 8 aprile 1997 n. 87), sia pure per quella forense ivi considerata (ma il principio vale per ogni esercente una professione intellettuale protetta), ha ben chiarito che “la protezione del segreto professionale, riferita a quanto conosciuto in ragione dell’attività” professionale “svolta da chi sia legittimato a compiere atti propri di tale professione, assume carattere oggettivo, essendo destinata a tutelare le attività inerenti alla difesa e non l’interesse soggettivo del professionista”; di concerto, questa Corte (seconda sezione penale, sentenza 6 marzo 2009 n. 17674, depositata il 24 aprile 2009, in cui si richiama “Cass. 8635/1996″) ha ribadito che “la ratio incriminatrice dell’art. 622 c.p.” (il quale punisce il professionista che violi, dandone rivelazione “senza giusta causa” o impiegandolo a proprio o ad altrui profitto, un “segreto” di cui abbia avuto “notizia” per “ragione della propria professione”, e che rechi “nocumento”) “consiste nella tutela della libertà e della sicurezza del singolo, nel senso che il professionista che, in ragione del suo status, viene a conoscenza dei segreti del cliente, è tenuto ad assicurarne la riservatezza”.
Nell’indicata decisione la Corte delle leggi ha osservato che “l’esenzione dal dovere di testimoniare” (oggetto, ivi, della sua indagine di costituzionalità) è “destinata a garantire la piena esplicazione del diritto di difesa, consentendo che ad un difensore tecnico possano, senza alcuna remora, essere resi noti fatti e circostanze la cui conoscenza è necessaria o utile per l’esercizio di un efficace ministero difensivo” per cui la “facoltà di astensione non costituisce un’eccezione alla regola generale dell’obbligo di rendere testimonianza, ma è essa stessa espressione del diverso principio di tutela del segreto professionale” perché “il legislatore, disciplinando la facoltà di astensione, ha operato, nel processo, un bilanciamento tra il dovere di rendere testimonianza ed il dovere di mantenere il segreto su quanto appreso in ragione del compimento di attività proprie della professione”: per la Corte “l’ampiezza della facoltà di astensione dei testimoni deve essere interpretata nell’ambito delle finalità proprie di tale bilanciamento”.
Mutuando integralmente (anche quanto all’”ambito delle finalità”) da tali osservazioni, è agevole affermare che la imposizione (terzo comma dell’art. 52 DPR n. 633 del 1972) agli inquirenti dell’obbligo di richiedere e di ottenere una preventiva specifica autorizzazione da un organo pubblico terzo (Procuratore della Repubblica o autorità giudiziaria) per potere esaminare i “documenti” e/o richiedere le “notizie” in ordine (”relativamente”) ai quali il contribuente-professionista abbia eccepito, come consentitogli dallo stesso art. 52, il “segreto professionale”, costituisce lo strumento, legislativamente predisposto, di bilanciamento tra i due “doveri” di esso contribuente-professionista, ovverosia tra quello di subire (al pari di qualsiasi contribuente) una verifica fiscale involgente tutti i documenti e tutte le notizie proprie dell’attività svolta rinvenuti nei luoghi destinati all’e-sercizio dell’attività professionale e il “dovere” dello stesso di “mantenere il segreto su quanto appreso in ragione del compimento di attività proprie della professione”.
L’autorizzazione in questione – il cui contenuto motivazionale deve essere necessariamente correlato all’esigenza di esplicitare l’avvenuta comparativa valutazione delle contrapposte ragioni offerte dalle parti, ovverosia dei motivi per i quali il contribuente-professionista ha opposto il segreto professionale e delle ragioni che, secondo l’organo verificatore, rendono necessari e/o indispensabili, ai fini della verifica fiscale in atto, l’esame dei documenti e/o l’acquisizione delle notizie “secretati” – non ha affatto lo scopo (paventato dai ricorrenti) di “perforare” (come a dire di rendere noto a o conoscibile da tutti) il segreto professionale – che deve sempre continuare a svolgere la sua funzione di tutela del cliente – perché:
– il suo rilascio consente solo l’esame dei documenti e la richiesta di notizie in ordine ai quali (esame e richiesta) il contribuente-professionista ha opposto il segreto;
– la effettiva sussistenza delle ragioni (rappresentate agli organi verificatori) per le quali è stato opposto il segreto professionale deve essere comunque verificabile: la condivisione della contraria opinione, infatti, come intuibile, finirebbe con l’attribuire al professionista-contribuente il potere, arbitrario ed incontrollabile, di sottrarre ogni e qualsiasi documentazione e/o notizia “scomoda” per lui alla verifica fiscale cui è sottoposto e, quindi, in sostanza, il potere di sottrarsi tout court a detta verifica, con evidente lesione del principio di cui all’art. 53 Cost.;
– l’accertata concreta sussistenza detta, proprio per effetto dell’eccezione opposta dal professionista ispezionato, consente agli ispettori autorizzati dal Procuratore della Repubblica – comunque tenuti all’osservanza del segreto d’ufficio dall’art. 15 del DPR 10 gennaio 1957 n. 3, nel testo sostituito con l’art. 28 della legge 7 agosto 1990 n. 241 – di esaminare i documenti e di acquisire le notizie “secretati” sempre ed esclusivamente nei limiti (indicati dalla norma) dell”accertamento dell’imposta” e della “repressione dell’evasione e delle altre violazioni”, non certo di divulgare (se non assolutamente indispensabili ai fini detti) il contenuto dei documenti e delle notizie coperti dal segreto professionale.
All’obbligo di serbare il “segreto professionale”, peraltro, non può riconoscersi la latitudine che sottende la tesi dei ricorrenti atteso che non ogni “pratica” del cliente può dirsi coperta da segreto professionale: questo, infatti, protegge solo le notizie date al professionista riservatamente per il fine difensivo detto e, comunque, non altrimenti già note aliunde (come, ad esempio, le “notizie” esposte in controversie giudiziarie interessanti il cliente stesso).
F. L’analisi che precede dimostra che la necessità di richiedere l’autorizzazione di cui all’ultimo inciso del terzo comma dell’art. 52 DPR n. 633 del 1972 nasce soltanto nel corso di una verifica fiscale ed ha unicamente la funzione di consentire ai verificatori di esaminare i documenti o di acquisire le notizie “relativamente” ai quali (documenti e/o notizie) il contribuente professionista ha eccepito l’esistenza di un (suo dovere di tutelare il) “segreto professionale” per avere egli il possesso di quei documenti o la cognizione di quelle notizie in ragione della sua attività professionale in favore del cliente (sempre che quei documenti e quelle notizie abbiano effettivamente un contenuto che, nell’interesse del diritto di difesa del cliente, debba rimanere segreto): l’autorizzazione in questione, quindi, attiene esclusivamente al procedimento amministrativo di verifica tributaria e produce effetti solo nell’ambito dello stesso.
Correttamente, pertanto, il Consiglio di Stato, essendo l’atto (del quale è stato chiesto l’annullamento) privo di una sua autonomia, come di qualsiasi efficacia esterna a quel procedimento di verifica fiscale, tenuto conto proprio della «natura della situazione giuridica» di cui i ricorrenti (che la hanno invocata) hanno chiesto la tutela, ha ritenuto l’autorizzazione in questione solo atto interno a detto procedimento e, di conseguenza, soggetto al sindacato del giudice tributario cui il legislatore (con l’art. 2 del D. Lg. vo 31 dicembre 1992 n. 546, sia nel testo originario, che in quello novellato dall’art. 12, comma 2, legge 28 dicembre 2001 n. 448) ha demandato la tutela giurisdizionale di tutti i contribuenti (anche dei professionisti) in ordine ai tributi indicati nella norma atteso che, come reiteratamente affermato da queste sezioni unite (Cass., un., 29 aprile 2003 n. 6693 (ordinanza interlocutoria), da cui gli excerpta testuali che seguono, nonché 16 marzo 2009 n. 6315):
(a) “nella disciplina del contenzioso tributario quale risultante dal d.lgs. 31.XII.1992 n. 546 (art. 2 sia nel testo originario, che in quello novellato dall’art. 12, comma 2, L. 28.XII.2001 n. 448) la tutela giurisdizionale dei contribuenti, con riguardo ai tributi cui le norme citate hanno riferimento, è affidata in esclusiva alla giurisdizione delle commissioni tributarie, concepita comprensiva di ogni questione afferente all’esistenza ed alla consistenza dell’obbligazione tributaria (cfr., in terminis, ex multis, Cass. SS.UU. civ., sent. n. 103 del 12.III.2001)” e (b) tale esclusività “non” è “suscettibile di venir meno in presenza di situazioni di carenza di un provvedimento impugnabile e, quindi, di impossibilità di proporre contro tale provvedimento quel reclamo che costituisce il veicolo di accesso, ineludibile, a detta giurisdizione” perché siffatte “situazioni” (”quando fattualmente riscontrate”) incidono “unicamente sull’accoglibilità della domanda (ossia sul merito), valutabile esclusivamente dal giudice avente competenza giurisdizionale sulla stessa, e non già sulla giurisdizione di detto giudice (cfr., in proposito; ex aliis, Cass. SS.UU. civ., sent. n. 11217 del 13.XI.1997)”.
La giurisdizione (piena ed esclusiva) del giudice tributario fissata dall’art. 2 del D. Lg.vo n. 546 del 1992, poi, non ha ad “oggetto” solo gli atti per così dire “finali” del procedimento amministrativo di imposizione tributaria (ovverosia gli atti definiti, propriamente, come “impugnabili” dall’art. 19 D. Lg.vo n. 546 del 1992) ma investe – nei limiti, ovviamente, dei “motivi” sottoposti dal contribuente all’esame di quel giudice ai sensi dell’art. 18, comma 2, lett. e), stesso D.Lg.vo – tutte le fasi del procedimento che hanno portato alla adozione ed alla formazione di quell’atto tanto che l’eventuale giudizio negativo in ordine alla legittimità e/o alla regolarità (formale e/o sostanziale) su un qualche atto “istruttorio” prodromico può determinare la caducazione, per illegittimità derivata, dell’atto “finale” impugnato: “la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria”, infatti (Cass., un., 4 marzo 2008 n. 5791; ma già, Cass., un., 25 luglio 2007 n. 16412), “è assicurata mediante il rispetto di una sequenza ordinata secondo una progressione di determinati atti, con le relative notificazioni, destinati, con diversa e specifica funzione, a farla emergere e a portarla nella sfera di conoscenza dei destinatari, allo scopo, soprattutto, di rendere possibile per questi ultimi un efficace esercizio del diritto di difesa”.
Siffatta estensione della giurisdizione tributaria – diffusa (come detto) anche al controllo della regolarità (formale e sostanziale) di tutte le fasi del procedimento di imposizione fiscale – evidenzia, di converso, l’applicabilità anche agli atti fiscali (lato sensu) “istruttori” del principio della non autonoma (ed immediata) impugnabilità proprio in quanto aventi carattere infraprocedimentale.
G. “Per quanto attiene”, poi, specificamente “alla problematica della riconducibilità dell’atto impugnato alle categorie indicate dal D. Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, art. 19″, queste sezioni unite (sentenza 27 marzo 2007 n. 7388) – confermato che giusta “una consolidata giurisprudenza (da ultima, sez. un., ord. n. 22245/06)” “tale problematica non attiene alla giurisdizione, ma alla proponibilità della domanda” -, pur rilevando (”non possono non rilevare”) che “la mancata inclusione degli atti in contestazione nel catalogo contenuto in detto articolo comporterebbe una lacuna di tutela giurisdizionale, in violazione dei principi contenuti negli articoli 24 e 113 Cost.”, hanno specificato esser “compito della commissione tributaria verificare se l’atto in contestazione possa ritenersi impugnabile nell’ambito delle categorie individuate dall’art. 19 del d.l.vo n. 546 del 1992″.
Parimenti ed indi, costituisce compito esclusivo del giudice tributario – siccome unico titolare, giusta l’art. 2 del D. Lg.vo n. 546 del 1992, della potestà di giudicare su ogni questione che comunque inerisca alle “controversie” aventi uno degli “oggetti” indicati nello stesso articolo – verificare anche la natura (tassativa o meno) dell’elenco delle “categorie” degli atti impugnabili contenuto nell’art. 19 del medesimo D. Lg.vo, sottoponendo eventualmente la questione al vaglio del giudice delle leggi ovvero adottando, ove possibile, una interpretazione delle conferenti norme rispettosa sia dei principi costituzionali (in particolare di quello di cui all’art. 24 Cost.) che di quelli, posti da fonti internazionali, se vincolanti pure il giudice nazionale. Il principio – invocato dai ricorrenti nelle memorie – affermato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella sentenza resa il 21 febbraio 2008 (”requète n. 18491/03″: “Affaire Ravon et autres c. France”) , secondo cui è necessario che “en matière de visite domiciliaire … les personnes concernées puissent obtenir un controle juridictionnel effectif, en fait comme en droit, de la régularité de la décision prescrivant la visite ainsi que, le cas échéant, des mesures prises sur son fondement; le ou les recours disponibles doivent permettre, en cas de constat d’irregularité, soit de prevenir la survenance de l”opération soit, dans l’hypothèse où une opération jugée irrégulière a déjà eu lieu, de fournir à l’interesse un redressement appropriè” – costituisce, quindi, per il giudice cui l’ordinamento attribuisce la potestà di giudicare, parametro di riferimento per la valutazione dell’idoneità dei mezzi predisposti a tutela di quelle posizioni soggettive (momento valutativo interno, anche ai fini della tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., di quella giurisdizione) ma non incide affatto sulla interpretazione delle norme (nazionali) di ripartizione della giurisdizione.
“Il carattere esclusivo della giurisdizione tributaria”, peraltro ed invero (Cass., un., 27 marzo 2007 n. 7388) , “non consente che atti non impugnabili in tale sede siano devoluti, in via residuale, ad altri giudici, secondo le ordinarie regole di riparto della giurisdizione (Sez. Un., ord. n. 13793/04)”: “l’attribuzione al giudice tributario di una controversia che può concernere la lesione di interessi legittimi”, infatti, come chiarito, ” non incontra un limite nell’art. 103 Cost.” perché (”secondo una costante giurisprudenza costituzionale”: “da ultime, ordinanze n. 165 e 414 del 2001 e sentenza n. 240 del 2006″) “non esiste una riserva assoluta di giurisdizione sugli interessi legittimi a favore del giudice amministrativo, potendo il legislatore attribuire la relativa tutela ad altri giudici”.
H. La sicura incidenza della specifica attività amministrativa contestata (estensione della verifica a documenti e/o notizie secretati) su posizioni soggettive lascia integra l’originaria consistenza di diritto soggettivo delle stesse attesa la loro mera, temporalmente e funzionalmente limitata, compressione.
L’eventuale illegittimità del provvedimento adottato dal Procuratore della Repubblica – lamentata dai ricorrenti -, quindi, non lede un semplice interesse legittimo ma integra (se effettivamente sussistente) sempre la lesione di un vero e proprio diritto soggettivo del contribuente nei cui confronti viene eseguita la verifica ordinata perché solo quel provvedimento rende legittimo l’esercizio dell’azione accertatrice e fa sorgere, a carico del contribuente-professionista verificato, gli obblighi di “pati” detta azione anche in ordine ai documenti ed alle notizie secretati nonché di “facere” quanto eventualmente le afferenti norme gli impongano per consentire agli inquirenti di svolgere appieno la propria attività, il tutto sempre a prescindere dall’eventuale esito, negativo per l’Ufficio, del controllo stesso.
I. L’ipotizzabile esito negativo per l’Ufficio dell’attività di accertamento compiuta in forza di provvedimento ritenuto illegittimo dal contribuente (con conseguente riscontrata inesistenza delle condizioni per emettere un provvedimento fiscale) – come, del pari l’adozione di un provvedimento impositivo del tutto avulso dall’esame dei “documenti” e/o delle “notizie” secretati – porta la valutazione di quel fatto (ove lesivo di un qualche diverso interesse giuridico del contribuente ispezionato) nell’orbita giurisdizionale del giudice ordinario (quindi, non del giudice amministrativo) siccome ipoteticamente lesiva del diritto squisitamente soggettivo del contribuente a comunque non subire (a prescindere dalla operata “perforazione” del segreto professionale), al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, verifiche fiscali e, di conseguenza, le connesse compressioni legali ai suoi corrispondenti diritti (anche costituzionalmente garantiti), oltre i casi e le ipotesi previsti dalle afferenti leggi che attribuiscono e circoscrivono l’esercizio del potere di controllo degli Uffici fiscali: l’esito detto, infatti, non fa sorgere l’imprescindibile momento di collegamento con nessun “oggetto della giurisdizione tributaria” indicato nell’art. 2 del D. Lg.vo n. 546/1992 perché la controversia a tutela di quel fatto lesivo non involge alcun tributo.
L. In ordine alla legittimità del differimento al momento della impugnazione dell’atto impositivo della tutela giurisdizionale per vizi e/o per irregolarità concernenti atti compiuti nel corso dell’iter amministrativo conclusosi con l’adozione dell’atto impositivo notificato, di poi, è sufficiente ricordare il pensiero (”costantemente affermato”, come dice lo stesso giudice delle leggi) della Corte Costituzionale (decisione 23 novembre 1993 n. 406, che ricorda “da ultimo le sentenze n. 154 del 1992; n. 15 del 1991; n. 470 del 1990; n. 530 del 1989″) secondo cui “gli artt. 24 e 113 della Costituzione non impongono una correlazione assoluta tra il sorgere del diritto e la sua azionabilità, la quale può essere differita ad un momento successivo ove ricorrano esigenze di ordine generale e superiori finalità di giustizia”, sempre che “il legislatore” osservi “il limite imposto dall’esigenza di non rendere la tutela giurisdizionale eccessivamente difficoltosa, in conformità al principio della piena attuazione della garanzia stabilita dalle suddette norme costituzionali”: nel caso, non si ravvisano né sono state dedotte difficoltà della “tutela giurisdizionale” relativa all’atto qui impugnato quale conseguente al differimento di quella tutela al momento della emissione dell’atto di imposizione fiscale o all’esito, eventualmente negativo fa fini tributari) dell’accesso ispettivo.
M. Sul «corretto ambito applicativo» della disposizione dettata dal quarto comma dell’art. 7 legge 27 luglio 2000 n. 212 (secondo cui “la natura tributaria dell’atto non preclude il ricorso agli organi di giustizia amministrativa, quando ne ricorrano i presupposti” – di cui i ricorrenti lamentano la violazione da parte del giudice a quo -, infine, va ribadito – in carenza di qualsivoglia convincente argomentazione contraria – il principio già precisato nella sentenza 13 luglio 2005 n. 14692 di queste sezioni unite per cui quella disposizione riconferma “il carattere esclusivo e pieno della giurisdizione ordinaria in materia tributaria”, “non fa che enfatizzare un principio già generalmente riconosciuto” e “comporta”, “salvo espresse previsioni di legge”, “una naturale competenza del giudice amministrativo” soltanto “sull’impugnazione di atti amministrativi a contenuto generale o normativo, come i regolamenti e le delibere tariffarie e di atti” aventi natura provvedimentale”) “che costituiscano un presupposto dell’esercizio della potestà impositiva e in relazione ai quali esiste un generale potere di disapplicazione del giudice cui è attribuita la giurisdizione sul rapporto tributario”.
Nella stessa sentenza, inoltre, si è precisato che “tale principio non può mai comportare una doppia tutela (dinanzi al giudice amministrativo e a quello ordinario o tributario) nei confronti di atti impostivi o di atti del procedimento impositivo”.
4. Per la loro totale soccombenza i ricorrenti, ai sensi degli art. 91 e 97 c.p.c., debbono essere condannati, in solido tra loro (atteso il comune interesse alla causa), a rifondere agli enti pubblici costituiti le spese processuali del giudizio di legittimità, liquidate (nella misura indicata in dispositivo) in base alle vigenti tariffe forensi, al valore (indeterminato e rilevante) della controversia ed all’attività difensiva svolta dalle parti vittoriose.
Le spese processuali di questo giudizio vanno, invece, integralmente compensate tra i ricorrenti e il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano ai sensi del secondo comma dell’art. 92 c.p.c., avendo detto Consiglio sostanzialmente difeso le tesi di quelli, nei confronti dei quali non ha, quindi, assunto veste di contraddittore.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; dichiara la giurisdizione del giudice tributario; condanna i ricorrenti, in solido tra loro, a rifondere alle amministrazioni pubbliche Le spese del giudizio di legittimità che liquida in complessivi €. 10.200,00 (diecimiladuecento/00), di cui €. 10.000,00 (diecimila/00) per onorario, oltre spese generali ed accessori di legge; compensa le spese tra i ricorrenti ed il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano.
Depositata in Cancelleria il 07.05.2010